Supera i 25 miliardi di euro il debito finanziario netto di TIM, in presenza comunque di risultati preliminari per il 2022 sopra le attese e del nuovo piano industriale 2023-2025 con obiettivi ambiziosi (si veda qui comunicato stampa e la presentazione agli analisti), mentre il Consiglio di amministrazione si appresta a decidere in merito all’offerta di KKR per la NetCo del gruppo (si veda altro articolo di BeBeez), che si dice possa valere 18 miliardi, più ulteriori 2 miliardi in caso di via libera da parte della UE al progetto di integrazione Tim-Open Fiber, più altri 7 miliardi messi sul piatto per investimenti per sviluppare l’infrastrutturazione a banda ultralarga. ll tutto in attesa che la contro-offerta di CDP e Macquarie venga formalizzata. Nella nota diffusa ieri, infatti, viene spiegato che il Cda si riunirà il 24 febbraio “per valutare l’offerta non vincolante di KKR”, e di essere aperta “a valutare ogni eventuale alternativa che dovesse nel frattempo concretizzarsi e continuerà nel dialogo con i propri stakeholders”.
Nell’arco del piano triennale, l’ex monopolista delle tlc prevede ricavi da servizi in crescita low single digit nel 2023, con il business domestico sostanzialmente stabile, e il Brasile in crescita high single digit, mentre l’ebitda organico è stimato in crescita mid single digit nel 2023, con il business domestico stabile/in crescita low single digit e il Brasile in crescita low double digit. Inoltre, l’ebitda organico after lease è atteso in crescita low to mid single digit per il 2023, con capex previsto a circa 4 miliardi di euro nel 2023 e stabile nell’arco di piano, ma con 3,1 miliardi di euro di investimenti annui previsti a livello domestico previsti. Si stima, inoltre, un equity free cash flow after lease cumulato “leggermente positivo in orizzonte di piano”, senza fare riferimenti a dividendi o buyback se non per la Tim Brasil, dove è prevista cedola per il 2023 di 2,3 real brasiliani per azione (1 real – 0,18 euro) e “in continua evoluzione” fino al 2025.
Il piano, in generale, prevede uno sviluppo di fatturato e margini sotto la doppia cifra nei tre anni e si confronta con un 2022 chiuso con risultati “superiori alle guidance grazie a un ulteriore miglioramento dei trend operativi nel quarto trimestre”, come precisato dalla società nella nota sui conti preliminari (si veda qui comunicato stampa). Da ottobre a dicembre, i ricavi di Tim sono aumentati del 3,3% a 4,3 miliardi mentre, in riferimento ai servizi, si parla di una crescita del 3,6% a 3,9 miliardi, a cui si aggiunge un “netto miglioramento” dell’ebitda complessivo (+ 2,7% a 1,5 miliardi) rispetto ad un picco del -13,3% registrato nel primo trimestre. In miglioramento anche l’ebitda after lease, in calo dell’1,3% a 1,2 miliardi, dopo tre trimestri di ribassi a doppia cifra. Guardando il debito, forse la questione più spinosa insieme alla forza lavoro nell’ambito delle varie offerte ricevute negli ultimi mesi, si registra un aumento di 3,2 miliardi rispetto al 31 dicembre 2021, per un totale di 25,4 miliardi, con equity free cash flow positivo per circa 600 milioni.
Oltre ai conti, sul tavolo del cda resta come detto ben aperto il dossier KKR, dopo che il fondo Usa ha presentato un’offerta non vincolante sulla NetCo del gruppo, 15 mesi dopo il primo tentativo, fallito, da 0,50 per azione con successiva opa. In questo senso, nella nota viene spiegato che il cda si riunirà il 24 febbraio “per valutare l’offerta non vincolante di KKR”, e di essere aperta “a valutare ogni eventuale alternativa che dovesse nel frattempo concretizzarsi e continuerà nel dialogo con i propri stakeholders”. Il fondo di private equity ha dato a TIM quattro settimane di tempo per portare a termine la due diligence, mettendo in piedi un’offerta che, secondo la ricostruzione del Sole 24 Ore, vedrebbe il fondo con la maggioranza del 51%, Tim e il Mef al 49%.
Sul piatto gli americani hanno messo 20 miliardi inclusi bonus in caso di raggiungimento di alcuni obiettivi, come i due miliardi in caso di rete unica. Lo scoglio più grande da affrontare a questo punto è il governo che, come un anno fa, preferirebbe una soluzione domestica guidata da CDP. E il ministro dell’Economia, Giorgetti, ha già fatto capire il vero obiettivo dell’esecutivo, anche se la premier Meloni ha cercato in queste settimane di mantenere un profilo il più possibile market friendly. “Il controllo strategico della rete resta non solo un obiettivo dichiarato ma che cercheremo di praticare”, ha detto il ministro leghista a margine del forum Aspen Italia Francia qualche giorno fa.
Il tempo scorre e gli incontri si intensificano, ma CDP non ha ancora formalizzato una contro-offerta da presentare a TIM, di cui per altro è il secondo azionista dietro al 23,75% di Vivendi. Si parla comunque di cifre simili a quelle offerte dagli americani, 24 miliardi incluso il debito monstre, con l’aiuto del fondo australiano Macquarie, con cui detiene la maggioranza di Open Fiber, e possibilmente di qualche altro fondo interessato al comparto delle tlc italiane per ammortizzare i costi. Con KKR da una parte e l’opzione statale dall’altra, il governo starebbe pensando di far contenti entrambi in una sorta di “spezzatino” della NetCo: al fondo Usa si darebbe la disponibilità per un’offerta sulle aree nere, cioè quelle a più alta concorrenzialità, mentre la Cassa potrebbe integrare le aree bianche e le aree grigie per le quali sarebbe meno complicato ottenere il via libera dell’Antitrust Ue per l’operazione di fusione.
Tutte queste opzioni però devono fare i conti con l’oste cioè Vivendi, che nell’ultimo MoU saltato a fine 2022 tra la società e Cdp ha fatto valere il proprio “no” a causa di una valutazione sulla rete ritenuta troppo bassa, analogamente al caso KKR di un anno fa. I francesi ancora non si sono espressi in merito alla nuova offerta a stelle e strisce, ma hanno fatto dimettere dal board anche Arnaud de Puyfontaine, per permettere al cda di valutare le diverse opzioni e far pesare le proprie quote in assemblea.