Il diffuso ricorso ai prestiti per far fronte ai mancati incassi e per approfittare delle favorevoli condizioni di mercato ha fatto aumentare il volume di debiti finanziari nei bilanci delle pmi, che sono passati da circa 232 miliardi nel 2019 a 260 nel 2020. E contemporaneamente nel periodo è più che raddoppiato il volume di debiti finanziari a rischio, passando da 22 a 51 miliardi, per poi ridursi leggermente a settembre 2021 a 44 miliardi. Lo si legge nel rapporto annuale dedicato alle pmi italiane, Osservitalia 2021, di Cerved Group, il gruppo specializzato in business information e credit management che ieri ha presentato il (si veda qui il comunicato stampa e qui il report completo).
Il rapporto rileva infatti che le prolungate chiusure hanno provocato per molte aziende una temporanea crisi di liquidità, che si è riflessa nella richiesta al sistema bancario di prestiti a breve. L’ampia disponibilità di garanzie pubbliche ha consentito alle banche di soddisfare queste richieste e di aumentare in modo anche più significativo i prestiti a medio-lungo termine. La composizione per scadenza dei debiti delle pmi si è così modificata in modo sostanziale, con la quota di debiti a breve che si è ridotta dal 52% al 43% tra 2019 e 2020. Le esigenze di liquidità, quindi, sono state più che soddisfatte, tanto che alla fine del 2020 le pmi avevano accumulato ampie riserve.
Per far fronte al maggiore indebitamento delle imprese, il governo ha varato diversi interventi, fra cui la possibilità di rivalutare gli attivi che è stata ampiamente utilizzata. L’impatto è stato quantificato in circa 42 miliardi di euro e ha fatto crescere il capitale netto delle pmi del 15% tra 2019 e 2020. Anche neutralizzando questi effetti puramente contabili, l’equity delle pmi è cresciuto (+2,8% secondo le stime), ma a ritmi decisamente più ridotti rispetto ai debiti finanziari. Sono peggiorati quindi gli indici finanziari, con il leverage che è passato dal 66,9% al 72,8%, ma mantenendosi a livelli molto più bassi rispetto a quelli ante crisi del 2008-2009 (115%). Il tutto mentre dal corposo report emerge anche che tra 2019 e 2020 è più che raddoppiato il numero di pmi che hanno chiuso l’esercizio in perdita, passando dal 16% del totale al 33%: una ogni tre.
Tuttavia, le garanzie hanno reso meno severo il processo di selezione del credito, facilitando l’erogazione di prestiti anche a imprese fragili o particolarmente colpite dalla crisi. Che peraltro sono aumentate in percentuale nell’ultimo anno: anche se il grado di resilienza accumulato dalle pmi italiane ha finora contenuto gli impatti della pandemia, il rischio di default è aumentato in modo evidente: la quota di pmi ad alto rischio di default ha toccato un massimo nel 2020 (al 13,4%, dal minimo dell’8,4% del 2019), con un parziale miglioramento a settembre 2021 (11,3%). Di conseguenza, come detto sopra, il volume di debiti finanziari a rischio è più che raddoppiato tra 2019 e 2020 (passando da 22 a 51 miliardi), per poi ridursi leggermente a settembre 2021 (44 miliardi di euro).
Gli effetti della pandemia sul nostro sistema produttivo, però, ancora non si sono manifestati sui dati relativi alle uscite dal mercato: nel 2020 il numero di pmi rischiose uscite dal mercato a seguito di una procedura concorsuale è risultato particolarmente basso: solo 1.731 pmi con un Cerved Group Score 2019 in area di rischio, cui corrisponde un calo del 26% su base annua, e questo soprattutto perché nel periodo sono stati introdotti vari dispositivi normativi tesi proprio a contenere le uscite dal mercato (es. dichiarazione di improcedibilità dei fallimenti) e c’è poi stata la sospensione dell’operatività dei tribunali e il conseguente rallentamento dei processi di lavorazione delle procedure. In parallelo, l’introduzione di aiuti e agevolazioni indirizzati alle imprese in difficoltà (estensione della Cassa Integrazione e delle garanzie pubbliche, moratorie, sussidi, ristori ecc.) ha contribuito a ridurre le uscite dal mercato e può aver indotto molti imprenditori in difficoltà ad approfittare di questi interventi e ad aspettare le agevolazioni del PNRR prima di decidere se liquidare la propria impresa.
Sono quindi sopravvissute pmi a rischio di default già prima del Covid, che continuano a operare sul mercato in una situazione di fragilità finanziaria ulteriormente aggravata dalla pandemia. Secondo i calcoli di Cerved, una misura del numero di chiusure in assenza degli interventi emergenziali e quindi una stima delle pmi zombie, non in grado di operare secondo le normali condizioni di mercato, è di 1684.
In uno scenario fisiologico pre-Covid, che neutralizza sia l’effetto della pandemia sia gli impatti delle norme emergenziali, basandosi sui tassi di uscita “normali” delle pmi per le diverse classi di rischio 2019, le chiusure (a seguito di una procedura concorsuale o di una liquidazione) passerebbero dalle 3.781 effettivamente registrate a una stima di 4.681 (+900 pmi uscite dal mercato), con una dinamica che continuerebbe a essere in flessione rispetto al 2019 (-5,4%). Invece, in uno scenario Covid-base, che si differenzia dal precedente perché considera l’impatto della pandemia sui default e assume un tasso di uscita fisiologico, in base al loro grado di rischiosità, l’allargamento del perimetro a rischio (da 22 mila a 30 mila) porterebbe il numero di chiusure a quota 5.475, con un trend in crescita rispetto alle chiusure del 2019 (+10,7%). Il numero di pmi “zombie” tra quelle ancora operative sul mercato sarebbe quindi pari appunto a 1.684.
In questo quadro, quindi, sottolineano gli analisti di Cerved nel loro report, è necessario che le ampie risorse del PNRR vadano a rafforzare le imprese indebolite dalla crisi ma con il potenziale di creare ricchezza e occupazione e non società decotte senza prospettive. E qui si ritorna al tema delle zombie firm, concetto ormai entrato nell’attuale linguaggio economico, insieme a quello di zombie lending, cioé di finanziamento erogato a zombie firm invece che ad aziende meritevoli (si veda altro articolo di BeBeez).
Da qui l’auspicio dell’amministratore delegato di Cerved, Andrea Mignanelli: “È necessario che le risorse pubbliche non siano date a pioggia, ma che rafforzino imprese con il potenziale di creare ricchezza e occupazione, distinguendole da quelle che invece sono decotte e che potrebbero diventare zombie firms. Alle imprese con buone prospettive ma in difficoltà finanziaria non serve liquidità, che è già stata data in abbondanza sotto forma di prestiti garantiti, ma equity“.
Secondo i calcoli di Cerved, il numero delle aziende meritevoli di supporto è di 54 mila su un totale di 153 mila attive a fine 2020 e necessitano di 8,3 miliardi di capitali freschi per riprendersi. ed evitare che 8,9 miliardi di debiti finanziari si trasformino in crediti deteriorati.
A queste cifre Cerved arriva applicando al caso italiano l’approccio all’analisi condotto in un recente documento del Gruppo dei 30, che fornisce una guida per gestire al meglio questa fase, distinguendo le imprese in base al grado di sostenibilità economica e finanziaria. Anche secondo il documento, infatti, il supporto pubblico si deve concentrare sulle imprese che hanno buone prospettive economiche, ma con problemi di natura finanziaria, fornendo liquidità o capitali. Viceversa, non bisogna supportare né imprese senza prospettive economiche, che potrebbero diventare zombie firms, né quelle che hanno una struttura finanziaria robusta, che possono rivolgersi al mercato.
In particolare, Cerved ha elaborato uno score di sostenibilità economica (SSE) che sintetizza le prospettive economiche delle pmi. Lo score tiene conto della solidità di ogni impresa prima della pandemia e delle mutate prospettive settoriali post-pandemiche. Le pmi sono state classificate in tre gruppi in base al grado di sostenibilità economica. Le imprese con buone prospettive economiche sono state definite purosangue, perché veloci e resistenti, in grado di crescere e creare occupazione. Le pmi con prospettive economiche incerte sono state definite mezzosangue, società che in determinate condizioni possono riprendere a crescere, ma con prospettive più incerte dei purosangue. Infine, le pmi economicamente non sostenibili sono state definite ronzini, perché non hanno le caratteristiche per correre, generare ricchezza e occupazione. La sostenibilità finanziaria è stata invece sintetizzata dal Cerved Group Score 2021, che definisce la probabilità di default effettiva delle imprese e che considera anche le conseguenze
della pandemia. In questo caso, gli score sono stati raggruppati in tre cluster: le pmi “sane”,
quelle per cui eventuali impatti finanziari non ne minacciano la sopravvivenza sul mercato;
le pmi “appesantite”, per cui il volume di debito è oltre i livelli di guardia e può avere impatti
sull’operatività e infine le pmi “infortunate”, con una condizione finanziaria che può pregiudicarne la capacità di rimanere sul mercato.
Combinando queste due valutazioni, sul campione di 153 mila pmi attive nel 2020, è possibile
identificare 27 mila purosangue appesantiti o infortunati che, secondo i criteri del documento
del G30, sono i candidati naturali ad interventi di supporto: sono società colpite dalla pandemia, ma con un modello di business che garantisce buone prospettive. Il secondo gruppo su cui bisognerebbe valutare un intervento è quello dei 27 mila mezzosangue appesantiti o infortunati: in questo caso si deve però considerare il maggior rischio di investire in società che potrebbero comunque uscire dal mercato, date le prospettive economiche incerte. Viceversa, non bisogna intervenire sulle 92 mila pmi “sane”, che possono rivolgersi al mercato. Quanto agli 8 mila ronzini, che non hanno prospettive economiche, servono interventi di ristrutturazione più radicale o che ne accompagnino l’uscita dal mercato, riducendo i costi sociali.
Iniezioni di capitale per sterilizzare gli impatti della pandemia sul leverage potrebbero avere effetti significativi. In base ad analisi su dati di bilancio, servirebbero come detto 21 miliardi di equity per consentire a tutte le pmi che hanno accumulato debiti di tornare sui livelli di leverage pre-Covid. Considerando gli score e le probabilità di default sottostanti, questo consentirebbe di evitare circa 4 mila default (la metà degli 8 mila attesi interrompendo del tutto i supporti), con 114 mila posti di lavoro persi in meno e 10,5 miliardi di debiti finanziari che non si trasformerebbero in crediti deteriorati.
L’analisi però evidenzia che, il linea con le indicazioni del documento del G30, interventi selettivi sarebbero più efficaci, ottimizzando il rapporto tra costi e benefici. Le iniezioni necessarie per salvare i purosangue appesantiti e infortunati sono quantificabili in 4,5 miliardi e consentirebbero di
evitare poco meno di 2 mila default, “salvando” 55 mila addetti e crediti deteriorati per 4,7 miliardi.
Con meno di un quarto delle risorse, si otterrebbe la metà dei benefici. Se oltre ai 4,5 miliardi si
investissero altri 3,8 miliardi in equity per i mezzosangue, si salverebbero altre 1.400 imprese,
con 37 mila addetti e 4,2 miliardi di debiti finanziari, riducendo di circa l’85% i fallimenti e i costi
associati.