E’ in dirittura d’arrivo il decreto attuativo delle norme contenute nella Legge di Bilancio 2019 che ridefiniscono le regole di investimento alle quali si devono attenere i Piani individuali di risparmio per ottenere gli sgravi fiscali previsti dalla Legge di Bilancio 2017 (art 1, commi da 100 a 114).
E la bozza di decreto che BeBeez ha visionato (scarica qui la bozza di decreto) specifica una serie di paletti in più che i Pir devono rispettare, per incrementare la loro esposizione diretta all’economia reale, in confronto a quelli già specificati nel testo della Legge di Bilancio 2019 e precisati uno per uno dell’Insight View di BeBeez pubblicata a fine gennaio (disponibile qui per i lettori di BeBeez News Premium 12 mesi, scopri qui come abbonarti a soli 20 euro al mese).
Ricordiamo che il comma 212 dell’art. 1 della Legge di Bilancio 2019 ha subordinato l’accesso all’agevolazione fiscale per i sottoscrittori dei Pir a una serie di nuovi obblighi. In primo luogo si chiede che il patrimonio dei Pir venga investito per almeno il 70% in strumenti finanziari, quotati oppure no, emessi o stipulati con imprese residenti nel territorio dello stato italiano oppure in Stati membri Ue o aderenti all’Accordo sullo Spazio economico europeo con stabili organizzazioni in Italia.
In secondo luogo, di questo 70%, almeno il 5% (quindi in totale si parla del 3,5% dell’intero patrimonio del fondo) deve essere investito in strumenti finanziari quotati sui sistemi multilaterali di negoziazione (es. Aim Italia per le azioni e ExtraMot Pro per le obbligazioni), che siano però emessi da pmi, come definite dalla raccomandazione 2003/361/CE della Commissione Ue e quindi imprese che occupano meno di 250 persone, il cui fatturato annuo non supera i 50 milioni di euro oppure il cui totale di bilancio annuo non supera i 43 milioni.
In terzo luogo, c’è almeno un altro 30% di quel 70% (quindi il 21% dell’intero patrimonio del fondo) che deve essere investito in strumenti finanziari di imprese diverse da quelle inserite nell’indice FTSE MIB della Borsa italiana o in indici equivalenti di altri mercati regolamentati.
Infine, un altro 5% di quel 70% (quindi il 3,5% del totale del patrimonio del fondo) deve essere investito in quote o azioni di fondi di venture capital, residenti in Italia o in Stati membri Ue o aderenti all’Accordo sullo Spazio economico europeo.
Tenuto conto di queste previsioni, quindi, la bozza di decreto attuativo precisa all’art. 2, dedicato agli aiuti alle pmi erogati tramite sistemi multilaterali di negoziazione e fondi per il venture capital, che la quota del 70% del valore complessivo del Pir costituito dall’investitore privato indipendente deve essere investita:
- Per almeno il 5 per cento del valore complessivo in strumenti finanziari ammessi alle negoziazioni sui sitemi multilaterali di negoziazione, emessi da pmi ammissibili;
- Per almeno il 5 per cento in quote o azioni di fondi per il venture capital che investono almeno il 70 per centro dei capitali raccolti in pmi ammissibili
La bozza di decreto definisce come pmi, le piccole e medie imprese che occupano meno di 250 persone, il cui fatturato annuo non supera i 50 milioni di euro oppure il cui totale di bilancio nonsupera i 43 milioni di euro. Si tratta della definizione prevista dall’art. 2 par.1 della Raccomandazione 2003/361/CE della Commissione europea, così come richiesto dall’art. 1 comma 212 della Legge di Bilancio 2019.
Le pmi ammissibili sono invece le pmi non quotate su un mercato regolamentato residenti nel territorio dello Stato o in uno stato membro dell Unione europea o in uno stato aderente all’Accordo sullo spazio economico europeo con stabile organizzazione nel territorio dello Stato, che non hanno ricevuto risorse finanziarie per un ammontare complessivo superiore a 15 milioni di euro a titolo di qualsiasi misura per il finanziamento del rischio e che soddisfa almeno una delle seguenti condizioni:
- non ha operato in alcun mercato
- opera in un mercato qualsiasi da meno di 7 anni dalla prima vendita commerciale
- necessita di un investimento iniziale per il finanziamento del rischio che, sulla base di un piano aziendale elaborato per il lancio di un nuovo prodotto o l’ingresso in un nuovo mercato geografico è superiore al 50 per cento del suo fatturato medeio annuo negli ultimi 5 anni
La bozza precisa anche che al fine del computo delle due quote del 5 per cento del valore complessivo da destinare agli investimenti in strumenti emessi da pmi negoziati sui sistemi multilaterali di negoziazioni e agli investimenti in quote di fondi di venture capital, gli strumenti finanziari di cui si sta parlando sono solo l’equity e il quasi equity. Dove un investimento in equity è definito come conferimento di capitale a un’impresa e l’investimento in quasi equity è definito come un tipo di finanziamento che si colloca tra equity e debito e ha un rischio più elevato del debito di primo rango e un rischio inferiore rispetto al capitale primario, il cui rendimento si basa principalmente sui profitti o sulle perdita dell’impresa destinataria e non è garantito in caso di cattivo andamento dell’impresa. Può essere strutturato come debito non garantito e subordinato, compreso il debito mezzanino e convertibile in equity o come capitale privilegiato. Si escludono quindi il private debt e il direct lending nelle loro forme più tradizionali e senior.
La bozza di decreto, quindi, aggiunge all’art. 3 che ciascuna pmi emittente gli strumenti finanziari ammessi alle negoziazioni sui sistemi multilaterali di negoziazione e ciascuna pmi i cui strumenti finanziari sono oggetto di investimento da parte dei fondi per il venture capital non può ricevere un ammontare complessivo di risorse finanziarie a titolo di qualsiasi misura di aiuto per il finanziamento del rischio superiore a 15 milioni. Quindi non solo quelle pmi non devono aver incassato prima oltre 15 milioni di euro dagli investitori, ma non possono andare oltre quella cifra nemmeno in un secondo momento, con l’investimento da parte dei Pir. Tutto questo, per essere compatibili con le norme europee sugli aiuti al finanziamento del rischio contenuti nell’art. 21 del Regolamento della Commissione del 17 giugno 2014, n.651.
E per essere sicuri che il limite dei 15 milioni sia rispettato, i gestori dei Pir devono chiedere ai legali rappresentanti delle pmi in questione che rilascino una dichiarazione scritta cha attesti che la medesima pmi non ha ricevuto un ammontare complessivo di risorse finanziarie in equity e quasi equity superiore a 15 milioni e anche che la stessa pmi non è quotata su un mercato regolamentato e che soddisfa almeno uno delle condizioni precisate più sopra nella definizione di pmi ammissibili, cioé che la pmi
- non ha operato in alcun mercato
- opera in un mercato qualsiasi da meno di 7 anni dalla prima vendita commerciale
- necessita di un investimento iniziale per il finanziamento del rischio che, sulla base di un piano aziendale elaborato per il lancio di un nuovo prodotto o l’ingresso in un nuovo mercato geografico è superiore al 50 per cento del suo fatturato medeio annuo negli ultimi 5 anni
La stessa dichiarazione i gestori dei Pir la devono richiedere ai fondi di venture capital di cui acquistano le quote. In particolare, sono i fondi di venture capital che si devono far rilasciare dalle pmi in cui investono quella dichiarazione e girarla ai gestori dei Pir. Non solo. I Pir devono farsi rilasciare dai fondi di venture capital in questione anche una dichiarazione in cui si dice che i fondi rispettano i criteri richiesti dall’art. 1 comma 213 della Legge di Bilancio 2019.
La definizione di venture capital è in realtà molto più ampia qui di quanto di norma non si sia portati a considerare, perché la Legge al comma 213 definisce come investitori di venture capital gli organismi di investimento collettivo del risparmio che destinano almeno il 70% dei capitali raccolti in investimenti in favore di pmi, come definite dalla Commissione Ue, che non siano quotate sui mercati regolamentati e che risiedano in Italia oppure in uno stato membro Ue o aderente all’Accordo sullo Spazio economico europeo con stabili organizzazioni in Italia. Si tratta quindi sia di fondi di venture capital che investono in startup sia di fondi di private equity che investono in pmi. Il comma 213 è la fonte alla quale attinge la bozza di decreto attuativo, che come si è visto specifica che i fondi di venture capitak, per rientrare nel radar dei Pir devono investire in pmi che soddisfino almeno una delle seguenti condizioni:
a) non hanno operato in alcun mercato;
b) operano in un mercato qualsiasi da meno di sette anni dalla loro prima vendita commerciale, quindi sono fondi con un track record ancora limitato;
c) necessitano di un investimento iniziale per il finanziamento del rischio che, sulla base di un piano aziendale elaborato per il lancio di un nuovo prodotto o l’ingresso su un nuovo mercato geografico, è superiore al 50% del loro fatturato medio annuo negli ultimi cinque anni.
Il testo prevede inoltre la possibilità di acquistare quote o azioni di una pmi non quotata anche da un investitore precedente, ma solo in combinazione con un apporto di nuovo capitale pari almeno al 50% dell’ammontare complessivo dell’investimento.
Tutte queste disposizioni si applicano ai Pir costituiti a partire dal 1° gennaio 2019. La bozza così com’è è al momento all’ultimo esame del ministero dello Sviluppo Economico dopo essere già passata dal ministero dell’Economia.
(articolo modificato alle ore 8:30 del 14 marzo 2019, si corregge in errore nella descrizione delle condizioni richieste ai fondi di venture previste dal comma 213 dell’art. 1 della legge di Bilancio)