Dopo un exploit a 240 miliardi di euro di turnover nel 2018 (+8,32%), il 2019 per il factoring italiano è iniziato nel migliore dei modi con un +19,32% a gennaio, un +21,73% a febbraio e un +15,83% a marzo e con un volume d’affari cumulativo di 58,58 miliardi di euro nel primo trimestre. Lo ha detto ieri in occasione dell’Assemblea di Assifact, che si è svolta a Milano presso la sede di Banca Sistema, il presidente Fausto Galmarini, ricordando che nel 2018 l’Italia ha battuto la Germania ed è diventata la quarta potenza a livello mondiale per turnover (si veda qui il comunicato stampa e qui altro articolo di BeBeez).
La crescita, peraltro, è avvenuta senza aumentare le sofferenze: le esposizioni deteriorate lorde nel 2018 sono state solo il 5,23% del totale, di cui le sofferenze sono state il 2,25%. Questa minore rischiosità si riflette anche sui tassi d’interesse dei factor, inferiori a quelli degli altri strumenti finanziari. Ciononostante i factor sono sottoposti in Italia alla stessa normativa regolamentare del settore bancario e quindi agli stessi obblighi di accantonamento a capitale di vigilanza, fatto questo che invece non accade in altre giurisdizione europee come la Germania. Ed è questo un punto sul quale l’Assifact sta cercando di portare l’attenzione di Banca d’Italia.
La buona salute del settore è anche favorita dai lunghi tempi medi di pagamento in Italia, che portano le imprese a rivolgersi agli operatori del factoring per essere pagate in tempi più brevi.
L’Italia ha infatti una pessima reputazione per i suoi tempi di pagamento dei crediti commerciali, in particolare da parte della PA (si veda altro articolo di BeBeez). Ma la situazione non è granché migliore a livello europeo. “La cultura dei pagamenti in ritardo esiste in tutta Europa”, ha spiegato Antonella Correra, legale della DG Grow della Commissione Europea (Direttorato Generale per il mercato interno, l’industria, l’imprenditoria e le pmi), nel corso del suo intervento all’Assemblea Assifact. In Europa e in diversi settori, più della metà dei pagamenti B2B avviene con un ritardo di almeno 10 giorni, ha spiegato Correra (si veda qui la presentazione completa).
I termini di pagamento sono rispettati solo dal 39% delle aziende. Più della metà delle aziende creditrici riceve pagamenti con ritardi eccessivi e il 70% di esse non esige interessi o i 40 euro di compensazione, per evitare di “rovinare” la relazione con l’impresa cliente. Nella realtà del business, prevale la legge del più forte, che sfrutta il suo potere contrattuale per pagare in ritardo, attuando una sorta di bullismo nella catena di distribuzione (supply chain bullying). Altre cause dei ritardi nei pagamenti sono: analfabetismo finanziario (solo il 30% delle imprese conosce la direttiva sui ritardi nei pagamenti; la maggior parte di esse si illude che basti emettere una fattura per ricevere un pagamento); procedure di verifica e pagamento complesse (tipiche della PA); particolarità settoriali (solitamente i ritardi si accumulano nel settore delle costruzioni, che ha una lunga supply chain).
La conseguenza principale dei ritardi nei pagamenti è il fallimento dell’impresa creditrice: 1 default su 4 è dovuto a ritardi nei pagamenti, con picchi del 40% nel settore delle costruzioni. Altri effetti negativi sono di tipo occupazionale (licenziamenti e blocco delle assunzioni); costo opportunità (l’impresa pagata in ritardo impiega tempo e risorse per “inseguire i creditori”, che potrebbero essere meglio impiegate per perseguire la sua crescita ed espansione, con effetti sulla redditività fino a 5 anni dopo). Inoltre, spesso le pmi non partecipano alle gare di appalto per la paura dei ritardi di pagamento. Tuttavia, nel caso esemplificativo della costruzione di un ospedale, l’80% dei lavori sono svolti comunque da pmi, in regime di subappalto per una grande impresa che si aggiudica l’appalto. Di conseguenza, le imprese stanno chiedendo una legislazione sul ritardo nei pagamenti che preveda delle sanzioni, vista anche l’inutilità dei codici di comportamento. In quest’ottica, la Commissione Ue sta iniziando a valutare una nuova revisione della direttiva sui pagamenti B2B, varata nel 2000 e revisionata nel 2011, complice la crisi economica. Una direttiva “zoppa, in quanto prevede l’obbligo di pagamento entro 60 giorni, in assenza di controlli e sanzioni”, ha illustrato Correra. A suo avviso servirebbero formazione e istruzione degli operatori, esecuzione delle norme tramite le sanzioni e trasparenza, in termini di monitoraggio delle performance, pubblicità negativa ai cattivi pagatori (name & shame) e positiva per i buoni (name & fame).