Idetoshi Nagasawa: La sua arte concettuale che profuma di spiritualità condivisa e natura
Un viaggio avventuroso in nave e in bicicletta dal Giappone all’Italia, una vita nel Belpaese, l’artista scomparso a marzo 2018 a Milano dove viveva, è in mostra alla Galleria Il ponte di Firenze, che già lo aveva ospitato (con Interferenza nel 2005), fino al 10 maggio – la mostra è stata inaugurata il primo marzo – a cura di Bruno Corà (che ne ha curato anche il catalogo per le Edizioni Gli Ori di Pistoia). Artista architetto, legato alla commistione spirituale tra oriente occidente, con elementi zen e molti riferimenti biblici, si definisce nel decennio rappresentato nell’esposizione 1969-1979, nella sua essenza di artista, autore concettuale che si è misurato con tanti materiali, sempre con grande rispetto e un’attenzione alla materia-natura che sa di venerazione, dalla carta, materiale molto usato in Giappone che diventa quasi plastica, in mostra utilizzata come realizzazione quasi scultorea, lavorata con l’intreccio o cucita; il marmo, le pietre, ed elementi diversi come legni e tessuti.
Estremamente versatile, lavora su piccole dimensione fino a installazioni di grandi proporzioni ed è proprio così che inizia il percorso nella mostra, all’entrata della galleria, Viti di Bagdad, con un baldacchino issato con un lenzuolo di seta bianca su tralci di viti con al centro un sasso che si illumina alternativamente a mezzogiorno e alle tre del pomeriggio, dai due lati, se orientato correttamente alla luce, fondendo la dimensione spazio temporale e dinamica dell’opera, elemento tipico della sua arte. Oltre che sulla continuità tempo spazio rappresentata visivamente con cuciture e segni di frattura le cui ‘rive’ combaciano però come nella Colonna, il grande serpentone in marmo con 11 sezioni di marmi diversi, lavora molto sull’assenza presenza.
Seguendo il percorso cronologico della mostra, iniziamo con Pulverize – Cloth Bucket del 1969, opera di carattere concettuale nel quale l’oggetto è presente per essere ‘cancellato’ ma memorizzato: il secchio viene fotografato, quindi bruciato e le ceneri raccolte in un vaso di vetro; per poi all’insegna della tautologia Firma del 1970, l’incisione sulle lastre, dove la parola diventa arte, come nel caso della sua firma appunto; per poi continuare con le ‘impronte’, come le forme in oro realizzate stringendo del materiale ancora morbido, stringendo i pugni, l’Oro di Ofir del 1971 o l’impronta del gomito in una fusione impronta che ci rimanda al tema del dialogo tra assenza e presenza. Linea del 1971 è ottenuta tracciando una linea nera su un tessuto montato su un telaio ligneo.
A partire dal 1972 le opere entrano nel campo della scultura con la combinazione di materiali diversi come Un’altra metà o nella già citata Colonna, come il corso di un fiume capovolto. Del 1974 è Presentazione al tempio, con il rilevamento e la ricollocazione di centinaia di punti su due tele disposte su telaio, su due tele disposte su un telaio, restituendo la struttura plastica di due celebri dipinti su questo tema, quello di Giovanni bellini e di Andrea Mantegna, sottolineandone la diversità nei dettagli, dipinti che a suo tempo avevano dato luogo tra l’altro a una querelle. Proseguendo la citata Viti di Bagdad del 1975, opera pensata per essere en plein air: è il momento in cui l’artista concepisce opere in loco, che ha realizzato in un’occasione anche per la Galleria Il Ponte. In Rotolo del 1979, calco e successiva fusione in bronzo dorato, un grande fagiolo (con un seme di un metro e venti) trovato in Brasile che racconta con il suo baccello che esce all’esterno dai rami e la pianta che si sviluppa come srotolandosi da una pergamena, il mistero, lo stupore e l’emozione che desta il nascere della vita alla quale è associata l’arte nel suo processo creativo. Infine le opere in carta, alle quali si è accennato, realizzate tra il 1976 e il 1977, rispettivamente Lavoro di carta-cucito del 1976, lavoro di carta-intreccio sempre del 1976, Lavoro di carta-rete e Lavoro di carta-triangolo, entrambe del 1977.
Ripercorriamo ora il suo tragitto esistenziale da quando nasce in Manciuria, da genitori giapponesi, ivi trasferitisi per il lavoro del padre, medico militare, il 30 ottobre del 1940. Durante il conflitto mondiale con l’attacco dell’Unione Sovietica la famiglia è costretta a fuggire in Giappone, vicino a Tokyo. In questi difficili anni minati dalla guerra, Nagasawa frequenta la scuola secondaria dove si avvicina all’arte contemporanea aprendosi ai gruppi d’avanguardia (Neo-Dada) e in particolar modo scoprendo l’attività del gruppo Gutai, della quale ammira la creatività, la libertà di espressione attraverso le loro Azioni e la novità del linguaggio – con ogni mezzo si può esprimere l’idea – in opposizione alla tradizionale cultura accademica dell’ambiente artistico giapponese. Visita così le loro ripetute Esposizioni Indipendenti organizzate al Museo di Tokyo dal giornale Yomiuri News Paper fino al 1964. Nel 1963 si laurea al corso di Architettura e Interior Design e in seguito lavora in uno studio di design di un grande magazzino e poi in uno studio di architettura.
Nel 1966 inizia il suo – quanto mai fondamentale e per la sua vita e per la sua arte – viaggio in bicicletta, al quale abbiamo accennato, attraverso l’Asia toccando Bangkok, la Malesia, Singapore, l’India, il Pakistan, l’Afghanistan, la Persia, l’Iraq, la Giordania, il Libano, la Siria, la Turchia. Dall’Oriente all’Occidente, dalla Grecia all’Italia, da Brindisi a Napoli, Roma, Firenze e Milano, dove nel 1967 si conclude la sua irripetibile avventura. Questa esperienza è vissuta nello spirito tipicamente zen: non proporsi dove arrivare, ma far tesoro di ogni esperienza vissuta per il raggiungimento del profondo sé – che per l’artista si sublimerà con la pratica dell’Arte.
Negli anni Sessanta a Milano si respira un clima di stimolante fervore artistico – l’esperienza dell’operato di Manzoni, di Fontana, e ora dell’Arte Povera – al quale non si sottrae Nagasawa che, trasferendosi nel quartiere operaio di Sesto San Giovanni, entra in contatto con artisti come Castellani, Fabro, Nigro, Trotta, Ongaro. In particolar modo stringerà una forte amicizia con Fabro.
Dal 1968 il lavoro di Nagasawa procede senza interruzioni creando i Solidi di plexiglas, gli Oggetti manipolati, le Azioni nella campagna lombarda. Nello stesso anno prende parte all’Art Festival di Anfo – Brescia – insieme al Gruppo Torinese (Marisa Merz, Getulio Alviani, Nanda Vigo).
Dei primi anni Settanta sono le prime personali, a Milano (Gallerie Lambert, Galleria Toselli), Roma (Gallerie L’Attico, Arco d’Alibert), Torino (Galleria Christian Stein) in cui l’artista rivela un suo percorso che si inserisce nell’ambito dell’Arte Concettuale passando dai video alle parole, concepite come elemento visivo, incise su lastre metalliche.
In questi anni prende corpo anche una vera e propria produzione scultorea, con l’impiego dell’oro, del marmo, del bronzo.
Nel 1972 partecipa alla XXXVI Biennale di Venezia e sviluppa un importante rapporto di lavoro con Ardemagni della galleria milanese Arte Borgogna che cura il catalogo della mostra tenuta da Nagasawa a Basilea nello stesso anno, Internationale Kunstmesse Art 3 ’72, con testi di Pierre Restany e Gianni Schubert.
Questo decennio e il successivo vedono l’artista cimentarsi con successo in una produzione vasta e varia per temi (l’impronta del corpo, lo spazio, il tempo), mezzi di espressione, materiali (legno, ferro, cera, carta, bambù). Riscopre il valore della manualità e la scultura si espande su scala spaziale, risolvendosi in vera e propria creazione di “luoghi” (tra i soggetti ricorrenti, dimore, stanze, porte, muri, recinti, barche, paraventi).
I riferimenti alla cultura orientale si accentuano; il tema del viaggio come passaggio tra diverse realtà, il bilico delle sue opere tra visibile e invisibile, la materialità della scultura che si rende leggera e trasparente sono condizioni determinanti nella manifestazione del proprio linguaggio.
Conseguentemente, gli impegni espositivi nazionali e internazionali in personali e collettive, in spazi pubblici: 1978, Firenze, Palazzo Strozzi; 1982 e ’88, Biennale di Venezia; Galleria Comunale d’Arte Moderna, Bologna e privati: 1981, Galleria Sperone, Torino; 1988, Valeria Belvedere, Milano (con la quale intesse un rapporto artistico costante con esposizioni nel 1990, 1992, 1993, 1996). Si susseguono Documenta di Kassel (1992), Biennale di Venezia (1993) – con sala monografica nel Padiglione Italiano – International Exhibition Center di Tokyo (1995, Giardino delle Sette Fontane, il primo giardino realizzato dall’artista), Fattoria di Celle di Pistoia (Iperuranio) e Fondazione Miró di Palma di Mallorca (1996, Jardin), Palazzo della Triennale di Milano e Palazzo Pretorio di Certaldo (2001, Giardino della casa del tè), Palazzo delle Stelline di Milano (2002), Il Caffè Letterario di Modena (2003), Galleria Arco d’Alibert (2004) e Nuova Pesa di Roma e galleria Il Ponte di Firenze con la mostra Interferenza (2005). Nel 2006 partecipa alla XII Biennale Internazionale di Scultura di Carrara ed espone presso la Torre di Guevara di Ischia. Nel 2008 realizza l’opera Giardino rovesciato per il parco-museo della Villa medicea La Magia a Quarrata (Pistoia).
Tra le mostre degli ultimi anni si ricorda Nagasawa. Dove tende Aurora, organizzata fra il 2009 e il 2010 in Giappone a Saitama (Kawangoe City Museum / The Museum of Modern art), Osaka (The National Museum of Art), Kanagawa (The Museum of Moder Art) e Nagasaki (Prefectural Art Museum); Nel segno della Croce, Galleria San Fedele (Milano, 2010); Hidetoshi Nagasawa, MACRO (Roma, 2013); Hidetoshi Nagasawa, CAMUSAC (Cassino, 2014, a cura di Bruno Corà); Sette Anelli, Renata Fabbri arte contemporanea (Milano, 2015); Vortici, Palazzo Ducale (Mantova, 2016); Galleggiamento, Galleria Adalberto Catanzaro (Bagheria 2017, a cura di Bruno Corà); Hidetoshi Nagasawa. La scultura degli anni ’70, Galleria Il Ponte (Firenze, 2019, a cura di Bruno Corà). Le sue opere sono nelle collezioni del Solomon R.Guggenheim Museum di New York, Middelheim Muse, Anversa, e Giappone (National Museum of Modern Art, Osaka; Museum of Contemporary Art, Hiroshima; Municipio Adachi-ku, Tokyo; Contemporary Art Center, Mito).
A cura di Giada Luni