Impossibile seguire tutto o anche solo buona parte di una settimana febbrile di eventi che si lega alla settimana del Salone del Mobile.
Abbiamo scelto un breve percorso a tappe che è partito con Immersione libera, un progetto di Marina Nissim a cura di Giovanni Paolin, in collaborazione con la Galleria Continua, l’Associazione Pierlombardo e il Teatro Franco Parenti, presentata il primo aprile (visitabile fino al 18 maggio) alla Palazzina dei Bagni Misteriosi, una collettiva che ospita gli artisti Alfredo Aceto, Agreements to Zinedine, Antonello Ghezzi, Calori & Maillard,Campostabile, Giovanni Chiamenti, Alessandro Fogo, Francesco Fonassi, Valentina Furian, Raluca Andreea Hartea, Ornaghi & Prestinari, Marta Spagnoli, realizzata con i curatori ospiti Giulia Colletti, Caterina Molteni, Treti Galaxie. Le parole d’ordine sono interazione, libertà e ricerca con la quale si sono misurati dodici giovani artisti, diversi per formazione e provenienza, attivi in Italia, chiamati a confrontarsi con uno dei luoghi più affascinanti di Milano, recentemente riscoperto e reso accessibile al pubblico, con l’invito a ideare nuove opere site-specific.
La mostra non segue un unico filo conduttore, ma abbraccia un ampio ventaglio di proposte che spaziano tra linguaggi, materiali e tecniche differenti. Agli artisti coinvolti, infatti, è stata concessa la massima libertà di sperimentazione senza alcun vincolo o limite, con l’obiettivo di arricchire il percorso espositivo e i suoi significati attraverso punti di vista sempre nuovi e alternativi. Nella loro diversità, tutte le opere sono pensate per fondersi con lo spazio circostante e favorire, attraverso esperienze immersive, il coinvolgimento dei visitatori. Che si tratti di sculture, opere pittoriche, stampe, fotografie, proiezioni video e installazioni, entrano in dialogo con una serie di eventi temporanei realizzati a cadenza settimanale in collaborazione con i curatori ospiti.
“La Palazzina dei Bagni Misteriosi – ha dichiarato il curatore Giovanni Paolin – si trasformerà in una piattaforma aperta dove artisti e curatori potranno operare sull’ibridazione dei loro linguaggi, creando, attraverso una serie di eventi che andranno dal concerto alla conferenza fino alla performance, un calendario di eventi che coprirà totalmente il periodo dell’esposizione”.
I confini mobili di Milano, Ibrahim Mahama e la Fondazione Nicola Trussardi
Da martedì 2 a domenica 14 aprile 2019, la Fondazione Nicola Trussardi presenta A Friend, un’imponente installazione concepita appositamente per i due caselli daziari di Porta Venezia dall’artista ghanese Ibrahim Mahama (Tamale, Ghana, 1987), a cura di Massimiliano Gioni, direttore artistico della Fondazione e curatore dei progetti. L’installazione è realizzata in occasione dell’Art Week milanese, coordinata dal Comune di Milano, e rimarrà visibile anche per l’intera durata della Design Week.
La Fondazione Nicola Trussardi, come ha raccontato in conferenza stampa Beatrice Trussardi, da sedici anni ha scelto di essere itinerante nella città tra i luoghi più significativi, dialogando direttamente con la città per far riflettere su temi sociali urgenti attraverso gli sguardi degli artisti. Il percorso si inserisce in luoghi storici con significati stratificati nel tempo che l’arte con il suo sguardo empatico, rende più facilmente accessibili. Il progetto nasce in collaborazione con il Comune di Milano, in particolare l’Assessore alla Cultura Filippo Del Corno, indispensabile per le autorizzazioni complesse, con il sostegno di Confcommercio Milano, Spada Partners, Apalazzogallery e lo sponsor tecnico Belluschi 1911.
Massimo Giomi ha evidenziato come un artista di respiro internazionale, Ibrahim Mahama, dopo i suoi grandi interventi all’interno di importanti rassegne internazionali di arte contemporanea – dalla 56. Esposizione Internazionale d’Arte della Biennale di Venezia (2015) a Documenta 14 (2017) a Kassel e Atene – si sia cimentato su un luogo simbolo della città, il casello dei dazi del crocevia di Porta Venezia, una delle sei porte principali della cinta urbana, che sorge sullo stesso asse viario su cui erano sorte in precedenza le omonime porte di epoca romana, medievale e spagnola. Per secoli Porta Venezia è stata per Milano la porta d’Oriente, segnando il confine che delimitava il territorio urbano rispetto alla campagna, luogo che storicamente ha contribuito a definire la topografia di Milano e la relazione tra la città e il mondo esterno, ricorrente tanto nella vita quanto nelle cronache: dall’ingresso della peste che devastò la città con l’epidemia del XVII secolo, passando per le descrizioni nelle pagine de I Promessi Sposi, fino ad arrivare ai quartieri multietnici che oggi si articolano intorno a questo snodo fondamentale. A Friend, il titolo dell’opera, è quindi un omaggio al tema del confine che oggi si inserisce in uno dei quartieri tipicamente multietnici della città a forte presenza africana. L’idea dell’opera nasce nel 2012 quando Mahama attraversa il confine tra il suo paese e il Burkina Faso per andare a trovare un amico. Le zone di confine sono sempre difficili e nota i tanti camion con merci stivate in sacchi di juta che incontrano meno intoppi delle persone. La juta diventa allora simbolo di libertà e metafora di una seconda pelle. L’installazione, perfettamente reversibile, ha comportato un lavoro enorme che non si vede e che è la vera anima dell’opera, autorizzazioni a parte, con l’intervento di squadre alpine che hanno montato, senza un solo chiodo i sacchi di juta per ricoprire il monumento. Centinaia di persone hanno collaborato al collage dei sacchi, alcuni dei quali erano già stati esposti a Kassel e a Venezia. Si tratta di 10mila sacchi, su 5mila metri quadri, per 85 metri di perimetro e 25 metri di altezza,, con una qualità pittorica accurata nella scelta delle singole tele. Alcune presentano dei nomi e il riferimento è ai lavoratori migranti che in Ghana che sono soprattutto impiegati nelle piantagioni, per raggiungere le quali affrontano viaggi perigliosi. E’ così che molti di loro si scrivono sulla pelle o si tatuano il proprio nome e delle informazioni essenziali, come il villaggio di provenienza, per essere riconsegnati ai propri cari nel caso di decesso. L’installazione è quindi anche un richiamo a non dimenticare l’individualità e l’unicità della persona umana che diventa un numero, un anello anonimo della catena di montaggio alla stregua delle merci. Un precedente di intervento forte sulla città era stato in occasione Festival del Nuovo Realistico con l’artista Christo che negli anni Settanta aveva impacchettato i monumenti a Leonardo da Vinci e a Vittorio Emanuele in Piazza Scala e Piazza Duomo. Se in quegli anni le azioni di Christo sembravano criticare il mondo dei consumi, oggi le “dimostrazioni civili” – come le descrive l’artista – di Mahama raccontano un mondo assai più complesso di tensioni globali.
Teresa Maresca all’Acquario, l’incontro visionario tra uomo e natura
Con Song of Myself a cura di Raffaella Resch (curatrice anche del catalogo con un testo critico di Paolo Biscottini) l’elegante edificio liberty di inizio Novecento che ospita l’Acquario Civico di Milano – che ha sede nell’edificio progettato dall’architetto Sebastiano Locati in occasione dell’Esposizione Universale del 1906 – ha accolto per due giorni tra le sue pareti e le sue vasche la mostra Teresa Maresca Song of Myself, promossa e prodotta dal Comune di Milano – Cultura e dall’Acquario – Civica Stazione Idrobiologica di Milano. L’esposizione, a è parte del programma Milano Art Week 2019 (1-7 aprile), palinsesto del Comune di Milano dedicato all’arte moderna e contemporanea.
L’artista – che è nata e vive a Milano, con un’arte figurativa e visionaria – pone al centro dell’indagine il rapporto tra uomo e natura, traendo il suo titolo dalla raccolta poetica del poeta americano Walt Whitman (1819-1892), di cui proprio nel 2019 si celebrano i 200 anni dalla nascita. L’omaggio a Whitman è duplice, al poemetto undicesimo di Song of Myself, in cui ventotto uomini si bagnano di notte nel fiume; e al Canto della Sequoia, la Red Oak Tree che nel testo di Whitman prende la parola in prima persona, come simbolo della sterminata e incontaminata natura americana. Artista dedita alla pittura, al disegno e all’incisione, mossa da un motivo ispiratore non di rado mutuato dalla poesia e dalla filosofia, Maresca elabora composizioni di grande impatto richiamando gestualità e cromatismi dei Neue Wilden, il movimento neoespressionista berlinese dei Nuovi Selvaggi, ma anche il Realismo Magico di Peter Doig, tendenze che si contraddistinguono entrambe per una costante riflessione sul ruolo dell’uomo nell’ambiente.
L’Acquario, sede quanto mai appropriata della mostra, raccoglie circa trenta opere di grandi dimensioni (olio e acrilico su tela) afferenti a due grandi cicli pittorici permeati dal tema centrale dell’acqua: Song of Myself (Men at Bath), del 2017, e Swimming Pools, del 2009.
Il ciclo Song of Myself, esposto al di sotto del luminoso lucernario che fa da copertura al Giardino d’Inverno dell’Acquario, è costituito da una serie di 18 grandi dipinti ad olio e acrilico su tela dedicata al tema degli «uomini bagnanti», inserita nel solco del pensiero naturalista americano già nella seconda metà dell’Ottocento. Nella pittura europea, invece, il soggetto dei bagnanti nudi al maschile è emerso dal ‘900 in poi, affiancandosi al tema classico della donna bagnante già noto nella storia dell’arte, dalle Veneri degli affreschi romani alle dee nascenti dalle acque rinascimentali, fino ad arrivare a Les Demoiselles d’Avignon picassiane. In pittura, il tema del bagnante maschile diventa decisivo con Munch (Bagnanti, 1904 – 1905), dove i corpi nudi rimandano a una concezione della natura primigenia, fonte di energia, concetto che attraverserà l’Espressionismo fino ai recenti Nuovi Selvaggi.
Nel pensiero americano dell’Ottocento, con la filosofia trascendentalista di Emerson e di Thoreau, la figura maschile in relazione alla natura era invece già ben consolidata. L’uomo possente in cammino attraverso le acque dei grandi fiumi americani rappresentava la fondazione del Nuovo Mondo, «finalmente proporzionato alla natura», come scrive Walt Whitman.
Così come vengono evocati nelle poesie di Whitman, nelle tele della Maresca si scorgono i corpi eroici dei bagnanti maschili immergersi nel fiume notturno, alla luce della luna che inonda il paesaggio acquatico di riflessi, proprio come in «Ventotto giovani», l’undicesimo poemetto di Song of Myself. La luna tinge di un’illuminazione surreale boschi e specchi d’acqua, in un notturno quasi cinematografico che come un sussulto ottico diffonde colori innaturali all’ambiente. Scrive il critico Paolo Biscottini, nel saggio Song of myself. Pittura come poesia: «L’opera pittorica muove dunque da un’emozione, in questo caso suscitata dai versi di Whitman, per divenire immagine dell’anima, sosta nel tempo magico di ciò che era e sarà».
Al piano terra dell’Acquario Civico, in dialogo con la sala delle vasche, si trova invece una selezione di opere tratte dal ciclo Swimming Pools. Le piscine americane di Maresca diventano specchi d’acqua dai colori fluo, contornati da bordi di cemento e palmizi, su cui solo raramente si riflettono figure umane, ombre vibratili, a testimonianza della perenne ricerca dell’artista di un rapporto tra uomo e ambiente. Il ciclo è ispirato al film cult Un uomo a nudo (The Swimmer, 1968, regia di Frank Perry) dove il protagonista (l’attore Burt Lancaster) compie un percorso metaforico di ritorno a casa, nuotando di piscina in piscina attraverso le ville dei suoi vicini. In mostra, anche alcuni collage realizzati con i fotogrammi del film.
Due schermi allestiti nella sala delle vasche, sempre al piano terreno, riprodurranno i due video curati dall’artista per le edizioni Pupillaquadra, rispettivamente Swimming Pools e Song of Myself.
Ipervisualità, quando la video art è narrazione
Intrigante, raffinata, coinvolgente l’iniziativa a palazzo Dugnani, di fronte ai Giardini di Porta Venezia, legata all’Ipervisualità, “quando l’invisibile diventa visibile”, opere video della Collezione Wemhöner (in mostra fino al 14 aprile) a cura di Philipp Bollman. Un lavoro sul tempo e sull’arte visiva che restituisce le tracce del fluire.
Dimenticate la solita video arte, fredda spesso, dove il video è un nuovo mezzo di comunicazione ma non una vera e propria scelta narrativa. A Palazzo Dugnani la video arte diventa cinema e si sposa in modo contraddittorio ma dialettico con l’ambiente settecentesco. Troppo spesso vediamo solo accostamenti che restano giustapposizioni per stupire che mettono insieme antico e moderno. In questo caso i video hanno un sapore ‘antico’, si sposano con quanto è affrescato intorno e si ambientano, prendono vita come su un fondo scenico.
L’effetto è l’essere trasportati in una dimensione onirica, che la grande dimensione delle opere aiuta, a rendere una sorta di quarta parete. Lo spettatore è dentro la storia e si chiede se si trova nel video e guarda gli affreschi e le stanze del palazzo o viceversa. In ogni caso se l’arte è emozione l’intento è totalmente riuscito. La scelta è tra l’altro molto raffinata, in sospensione tra la freddezza del mondo contemporaneo e il sogno senza tempo, il gioco del cinema nel cinema.
Strepitoso di Yang Fudong New Women (del 2013), video installazione a 5 canali che narra la vicenda di donne orientali nude, in bianco e nero, all’interno di una sorta di casa della mente. Leggermente conturbante, delicato, non estetizzante malgrado la sublime eleganza e la malinconia diffusa di una solitudine totale, nella quale le giovani donne sono immerse: in dialogo con gli oggetti, modelli di architettura, un pianoforte, un libro, i fiori, ma non tra di loro. In Deep Gold di Julian Rosefeldt, film monocanale di 18 minuti, l’atmosfera è straniante come in un film di Buñuel, qualche collega ci ha visto anche un certo Fellini. In Fragile di Masbedo alias Niccolò Massazza e Iacopo Bedogni, del 2016, film monocanale di quasi 8 minuti, il pavone sembra staccarsi dagli affreschi e c’è un lavoro di contaminazione che non è solo collage tra l’ambiente e l’opera inquietante e divertente ad un tempo. Nelle altre stanza Playtime del 2014 di Isaac Julien con una proiezione a doppio canale e di Julian Rosefeldt The Swap del 2015; di Masbedo anche 2’ 59’’.
Il tema dichiarato è il tempo invisibile del quale visibili sono le tracce che lascia nello spazio, ma in fondo è la vita vissuta dalle varie angolature. Alle pareti e soffitti di Palazzo Dugnani, costruzione della fine del XVII secolo che tra il 1758 e il 1846 fu un importante luogo di ritrovo artistico e di mondanità – dimora dell’omonima famiglia – gli affreschi di Giovan Battista Tiepolo (nel salone principale decorato nel 1731). La mostra con il suo “iper” visuale vuol essere un ponte tra il visibile e l’invisibile e pone l’accento sulla sovrabbondanza (iper) di immagini. C’è sicuramente la critica alla società mediatica che bombarda di immagini e per la quale le immagini, i fantasmi si sostituiscono alla realtà ma anche quel movimento di sforamento che l’immagine, la fantasia produce attraversando il tempo e fissandolo nello spazio della rappresentazione.
L’ultima cena dopo Leonardo
Non poteva mancare nell’edizione 2019 una riflessione dell’arte contemporanea sul Cenacolo vinciano con una mostra, a cura di Demetrio Paparoni, inaugurata il 2 aprile in allestimento fino al 30 giugno a Palazzo delle Stelline – proprio di fronte Santa Maria delle Grazie – che riunisce alcuni artisti di tradizioni diverse, invitati a rileggere il capolavoro con un linguaggio contemporaneo. Si tratta dell’anglo-indiano Anish Kapoor; del cinese Wang Guangyi la cui opera è la locandina dell’esposizione; di Nicola Samorì; di Robert Longo; e ancora Masbedo, il duo che riunisce Nicolò Massazza e Iacopo Bedogni; e Yue Minjun.
Un’operazione riuscita, di grande suggestione con lavori raffinati, dove il rosso e l’ora, il chiaroscuro giocano un ruolo fondamentale, che non giocano con la propria notorietà, attenendosi al tema con una ricerca filologica, fatta eccezione per Anish Kapoor, il primo che incontriamo presente con due opere – Flayed II e Untitled che racconta la propria condivisione con lo spirito leonardesco in termini di ricerca sul rapporto arte e scienza, visibile e invisibile, con una lavorazione in silicone con bianco e rosso che ormai potremmo definire “Kapoor”, in una dimensione che è quasi di carne viva, prefigurazione del sacrificio. Nella prima delle due opere la tovaglia macchiata del vino diventa sudario del sacrificio con sangue e riprende l’attenzione del Genio fiorentino per i panneggi dei tessuti. Wang Guangyi sceglie la rappresentazione fedele della scena disegnata in rosso su sfondo nero come un grande polittico formato da 8 tele, l’opera più monumentale del ciclo New Religion, che riecheggia l’idea della lacca cinese e alcune tecniche pittoriche del suo paese come l’effetto di colature sullo sfondo nero che sembrano gocce di pioggia; oltre il profilo delle sagome umane che ricordano i paesaggi montuosi cinesi. Nicola Samorì, pittore e scultore, nato a Forlì nel 1977 che vive a lavora a Bagnacavallo, con una presenza in mostre e musei internazionali, offre una ‘riproduzione’ dell’ultima cena di grande suggestione, su lastra di rame, che svela un lavoro complesso. Preziosa, con un forte richiamo all’antico, la figura del Cristo al centro è invece ridotta alla sagoma perché il volto è grattato via e offerto nel riflesso luminoso sulla tavola, come fosse la sua immagine in uno specchio con un effetto che è quasi un panneggio. Decisamente originale.
Robert Longo, americano di New York dov’è nato nel 1953, è un pittore e scultore che si è concentrato sul solo volto del Cristo, riprodotto in una dimensione più grande del reale, che mostra i segni, le rughe e le cicatrici dell’ultimo restauro, disegnato con carboncini in diverse tonalità di nero. L’immagine appare come una gigantografia in chiaro scuro esasperato, racchiusa in una cornice di foglia d’oro, alla cui base è appeso un sacchetto con i trenta denari, il prezzo del tradimento. Ha deciso che l’opera Untitled (Head of Christ) debba essere esposta su una parete rossa, immergendo idealmente il Cristo nel colore del vino offerto in simbolo del sangue per la remissione dei peccati.
Mabedo sceglie invece la memoria di Leonardo attraverso la cura dell’opera stessa con un video Madame Pinin di due minuti e 24 secondi concentrati sulle mani di Pinin Brambilla Barcilon che per oltre 22 anni ha lavorato al restauro dell’Ultima cena. Mani vecchie e invecchiate dal lavoro che presentano la grazia dell’artista, mani che potrebbero suonare un piano o un’arpa e che nel loro iperalismo, grazie ad una leggera colorazione verde come un diluente, sembrano immagini rinascimentali. Interessante anche l’effetto pittorico dei pochi e sobri gioielli in oro indossati, che assumono l’idea del quadro nella serie di scatti fissati in un grande pannello, dove la narrazione continua ad essere arte e non documentario.
Infine, in Digitalized servival di Yue Minjun, la pittura segue fedelmente l’architettura dell’opera di Leonardo prendendo a modello una delle foto che si trovano nei libri e riproducendo con cura in alto la cornice sbaccellata che sovrasta il dipinto nonché la porta che accedeva al refettorio. L’artista svuota però la scena della presenza umana, sostituendola con numeri rossi che non hanno un significato allegorico ma segnalano come la vita sia incomprensibile e i numeri siano il simbolo di questo discrimen tra comprensibile e incomprensibile.
La luce inonda il dipinto e lascia libera l’immaginazione di ricostruire la scena.
Lavori in corso con Vittorio Corsini nella Galleria d’Arte Frediano Farsetti Abbiamo concluso il nostro viaggio con un evento nella storica Galleria Farsetti (con sedi a Milano e Cortina) della quale abbiamo parlato a proposito della presenza a Miart dove è esposta un’opera di Vittorio Corsini, artista nato a Cecina in provincia di Livorno nel 1956, che vive e lavora a Milano al quale è dedicata l’esposizione nella Galleria di Via Manzoni, per creare un ponte con il contemporaneo.
Terminare il viaggio con una manifestazione che parla di lavori in corso esprime lo spirito della nuova ricerca che non ha fine. Farsetti lo fa con un progetto in partnership con Fabio e Paolo Gori che aprono all’interno della loro azienda, la Gori Tessuti, a Calenzano vicino Firenze, Arte in Fabbrica, un nuovo spazio espositivo, una formula particolare che unisce arte e lavoro, la cui apertura al pubblico è scandita dagli orari di lavoro. I fratelli Gori, che hanno stoccaggio di tessuti, hanno contribuito alla realizzazione dei costumi e degli arredi de Il Gladiatore, Pirati dei Caraibi, Aladdin, La la Land e a molte altre produzioni di successo e hanno scommesso sulla contaminazione tra arte e produzione. Il ponte tra il lavoro in galleria Farsetti e nell’azienda Gori è in questa prima tappa Vittorio Corsini con il doppio progetto espositivo si intitola UNSTABLE – ENVIROMENTS è concepito appositamente per i due spazi ed è a cura di Marco Scotini.
Sorprendente l’allestimento con la galleria completamente pitturata con una mano non finita e ricoperta di carta bianca e scotch a cominciare dalla porta d’ingresso dove campeggia una scritta ironica e assurda. All’ingresso una grande impalcatura allude ai lavori in corso: sulle assi, a guisa di mensole, case di vetro soffiato in bilico su « rocce » di marmo, perché, ci ha raccontato l’artista, la casa è si un rifugio ma permeabile, che assorbe le energie dall’esterno e guarda fuori. Alcune sono realizzate in vetro soffiato non con l’antica tecnica veneziana però, in un materiale molto duro rispetto al vetro abituale, altre in cristallo, illuminate, perché questo materiale trattiene la luce senza dispersione.
A cura di Giada Luni