Il Presidente De Polo: “ha raccontato i monumenti italiani nel mondo”
Il cambio della sede, la riorganizzazione e la cessione del patrimonio alla Regione Toscana di Alinari, è stata l’occasione per incontrare il Presidente dei Fratelli Alinari I.D.E.A., il triestino Claudio De Polo (studi classici, una Laurea in Economia e commercio, formatosi nell’azienda di spedizioni del padre e poi in quella del suocero, la Stock), alla guida di questa realtà dal 1982, per farci raccontare la storia di quella che è stata la prima azienda fotografica nel mondo, nonché la prima public company nel settore cultura e oggi uno dei principali archivi internazionali con alcune specificità, quale la biblioteca numero uno in Europa della storia della fotografia. La sua storia ci racconta anche l’evoluzione di una società seguendo la stessa tecnologia, l’influenza che la fotografia Alinari ha avuto sulla cultura, ad esempio sullo studio della storia dell’arte e sull’immagine dell’Italia nel mondo e, a sua volta, come il mutare dei tempi, il variare del business, l’ingresso della tecnologia abbia inciso sul mondo della cultura, in questo caso della fotografia.
La Fratelli Alinari sta vivendo un nuovo corso legato a un cambiamento dell’assetto dell’azienda. Ci racconta cosa è successo e qual è il quadro della situazione?
«A partire dal 2000 il mondo è cambiato così radicalmente e così velocemente come quasi mai lo era stato nei secoli precedenti con un impatto anche nel campo della fotografia dove il cambiamento è stato totale e radicale. Si calcola che oggi i 3miliardi di telefonini facciano 3 miliardi di foto al giorno, oltre 1.000 miliardi all’anno, con problemi di catalogazione, conoscenza e diffusione che forse solo l’intelligenza artificiale riuscirà a risolvere. La nostra epoca ha, secondo me, solo un altro paragone nel periodo storico che va dalla metà degli anni ’30 alla metà degli anni ’50 del 1800: in quel ventennio il mondo cambiò per la prima volta in modo radicale.
Non si può restare indifferenti a tutto ciò. La Regione Toscana – con un accordo fortemente voluto dal Presidente Enrico Rossi – è diventata proprietaria del patrimonio – immobili e materiale – Alinari nel 2018 e nel 2019 è diventato operativo il Centro per la fotografia per la Toscana, con un’attività di prestigio alla quale cerco di affiancare un’attività che sia remunerativa. Sul fronte della tecnologia mi preme dire che il materiale è archiviato con un sistema di ‘scatole’ di tecnologia polacca che siamo i primi ad utilizzare, resistenti anche ai terremoti. Ogni lastra è numerata ed è visibile anche senza estrarla dall’involucro, fatto che rappresenta un passo avanti enorme nell’ottimizzazione del lavoro e nella conservazione del patrimonio. La nuova stagione vede il trasferimento della sede a Villa Fabbricotti dove gli ambienti devono essere risistemati per accogliere il museo con circa 500mila immagini, tra le più importanti come ad esempio con l’acquisto di Team, le prime foto del Venerdi de La Repubblica, la documentazione storico politica dell’Italia dalla seconda metà del ‘900 al 2000, saldando un periodo storico che ci mancava».
In qualità di manager che tipo di attività intende promuovere?
«Un insieme di iniziative legate alla versatilità del nuovo archivio, a cominciare dalle mostre che sono una specificità degli archivi fotografici facilmente incrociabili per realizzare percorsi originali, mettendo ad esempio insieme l’archivio Piaggi, Guzzi e Gilera, si ha la storia delle due ruote in Italia ma alcune immagini possono essere combinate in modo diverso offrendo molte possibilità. Naturalmente tutta l’attività di vendita legata al copyright in particolare con i giornali, di libri e stampe tenendo contro di un archivio singolare della Fratelli Alinari.»
La digitalizzazione è stata un colpo duro per il mondo della fotografia ma anche un’opportunità.
«La possibilità di conservare la memoria e di un’accelerazione dei processi così come un deprezzamento che ha interessato il mercato e in Italia non esiste un vero e proprio mercato della fotografia. Per altro la digitalizzazione accurata costa più o meno 7 euro a foto quindi per ora la nostra azienda ha archiviato e ‘salvato’ 280mila foto. Purtroppo Telecom che è entrata nel nostro capitale con il 15% nel 1997 non ha colto la grande opportunità della digitalizzazione.»
Lei arriva alla guida dell’azienda nel 1982 e porta avanti una filosofia di patrimonializzazione. Ci racconta le sue scelte, condivise con i suoi quattro figli, tutti in azienda, Andrea, Gabriella, Giorgio e Paola, amministratore delegato?
«L’azienda stava vivendo una fase di passaggio dopo la morte del Senatore Vittorio Cini – bibliofilo e appassionato d’arte per il quale la fotografia era soprattutto documentazione – che era stato alla guida fino alla sua morte avvenuta nel 1976 e era intervenuto un certo smembramento. Io mi sono fatto carico dei debiti e l’ho patrimonializzata in linea con quanto già aveva fatto il mio predecessore, acquistando archivi di altri grandi fotografi italiani e stranieri, da Wulz a von Gloeden, da Michetti a Sommer, da Balocchi a Miniati, da Stanimirovitch a Mollino e tanti altri ancora. Sono stati acquistati importanti archivi di carte de visite, album di tutto il mondo, altri fondamentali archivi su temi specifici e complementari rispetto all’ossatura storico-artistica di Alinari. Ho portato l’archivio a 5 milioni e 250mila immagini cercando un ventaglio ampio che comprendesse ad esempio i dagherrotipi che non erano in portafoglio. Ho realizzato una collezione di 6.500 album di foto, la più grande al mondo, così come la prima biblioteca in Europa per numero di libri dedicati alla fotografia, 26mila, e tra le prime 5 al mondo per completezza. Nella stessa ottica ho comprato la Villani di Bologna che aveva un archivio di fotografico delle aziende italiane, insieme ad Aragozzini, Benvenuti, Pozzar e in tal modo ho riunito circa un milione di immagini per raccontare la storia dell’industria italiana. La fortuna è stata che la Villani non ha subito bombardamenti e quindi si è salvata la memoria, quando ancora non c’era il digitale. Abbiamo aggiunto anche la collezione di macchine fotografiche dalla metà dell’800 al primo cellulare dotato di obiettivo fotografico.»
Stiamo andando a ritroso e un passo per rendere competitiva l’Alinari era già stato compiuto da Cini. Qual è stato il suo apporto?
«Comprò l’azienda nel 1934, dopo un decessioni di crisi economica generale che ebbe un peso negativo anche sull’azienda fiorentina e la tenne fino alla sua morte. La sua scelta fu di comprare tutti i fotografi d’arte di allora, come i Brogi di Firenze, gli Anderson di Roma, gli Chaufourrier di Napoli, Mannelli, Fiorentini e D’alessandri, sprovincializzando così gli Alinari e garantendo loro la sopravvivenza in un momento in cui, tra il 1940 e il 1950, gli atelier stavano chiudendo. Di fatto l’azienda assunse il monopolio nazionale».
Ripercorrendo le orme della storia, quando nasce l’azienda e in quale contesto?
«Nel 1840 nacque il primo francobollo, il penny inglese, che permise all’uomo per la prima volta di comunicare in maniera democratica e totalitaria in tutto il mondo. E nasceva il dagherrotipo, in quel momento solo una diversa espressione di una forma di rappresentazione dell’arte, ancora un unicum come un manoscritto. Alla metà degli anni Quaranta dell’800 si diffonde il servizio ferroviario, che permette lo spostamento di viaggiatori in numero rilevante rispetto alle diligenze ed alle carrozze, sia all’interno dei Paesi, sia nel continente europeo ; quindi la nascita sotto il segno della ricerca della cultura del Grand Tour. Alla fine degli anni Quaranta Fox Talbot e Blanquard Evrard creano con intuizione geniale il calotipo, negativo su carta. La fotografia poteva essere riprodotta in un numero teorico di molti esemplari. I turisti li avrebbero acquistati per gli album ricordo del Grand Tour che riportavano le memorie dei paesi lontani in famiglia. Nel 1852 a Firenze Leopoldo Alinari inizia a fotografare mettendo il suo nome accanto a quello di Bardi, grande calcografo e mercante di stampe fiorentino. Nasce così la prima azienda fotografica al mondo».
La riproducibilità trasforma la fotografia in produzione e non solo in arte: qual è il merito degli Alinari?
«Sintetizzano l’idea dell’innovazione con un progetto di marketing ante litteram. Fanno viaggiare i monumenti italiani nel mondo. Nel 1854 Leopoldo costituisce con i fratelli Giuseppe e Romualdo la società Fratelli Alinari. È il periodo dei grandi atelier europei, e agli Alinari arriva una commessa straordinaria. Napoleone III ordina per tutte le accademie di Francia 150 foto che riproducessero i disegni dei grandi maestri italiani: il disegno più che la pittura racconta la nascita dell’arte e il suo monocromatismo era più facilmente riproducibile con una fotografia. Arriva così la fortuna e cambiano sede dominando poi, come ha scritto la critica, la storia dell’arte perché questa si è studiata sulle foto Alinari: nessuna concessione, una grande precisione, l’assenza della figura umana e la riproduzione del bello in senso rinascimentale».
Siamo in una logica di promozione quando a fine Ottocento il mondo della fotografia è attraversato da uno scossone. Cosa accade?
«Alla fine dell’800 Eastman a Rochester, negli Stati Uniti, costituisce l’azienda Kodak, il cui messaggio pubblicitario, ‘‘premete il bottone la macchina fa tutto il resto’’, sottolineava il programma. Era la morte dichiarata agli atelier fotografici, che chiudono in gran numero. Anche Alinari aveva deciso di cessare l’attività ma essendo i fotografi della corte reale italiana, e i più grandi documentatori dell’arte, della storia, della cultura e della società del nostro paese, il re Vittorio Emanuele III si fece promotore di una cordata di azionisti, alla fine 96, che nel 1920 comprano la Fratelli Alinari, con il suo patrimonio di 120mila lastre, i fotografi e l’immobile, per 5milioni di lire oro, pari a 250mila marenghi (50mila euro attuali più o meno). La cosa straordinaria è che nessuno di questi azionisti, che nomina il marchese Ricasoli presidente, aveva più del 10% delle azioni. La società Fratelli Alinari diventa una società per azioni nonché la prima public company al mondo nel campo della cultura, i cui azionisti erano nobili. Si aggiunge anche l’acronimo I.D.E.A, Istituto di edizioni artistiche. Oltre a nuove campagne fotografiche, l’attività si amplia con la pubblicazione di volumi e il noleggio dei copyright delle proprie foto a editori in tutto il mondo».
A metà degli anni ‘30, dopo la crisi di Wall Street, molti azionisti decidono di vendere. E ancora una volta, tramite il Re, si mobilita il banchiere Carlo Mattioli, che compra la maggioranza delle azioni per girarla successivamente appunto al conte Cini, arrivando alal storia che abbiamo raccontato.
a cura di Ilaria Guidantoni