Mi guardi, a volte, con tutta l’assenza dell’incanto. Che sia io, forse, quello lontano? Tu ci sei, sei presente a te stessa, al mondo. Mi sembri così accostata alla verità, certe volte, che in quegli occhi spauriti mi sembra di vedere tutto ciò che non vedo. La mia cecità nei tuoi occhi, Teresa. E allora mi fermo, li osservo, osservo il tuo mondo da quei piccoli occhi giganti, come fossero prolunghe della mia impotenza, come fossero tutori, pupille bioniche dei miei arti oculari fantasma. Io lo sento, a volte, che c’è un oltre, da qualche parte, dentro, fuori, chissà; io lo sento vicino, lontano, chissà: come un braccio perduto che ci sembra di non aver perso, come un ricordo che avevamo dimenticato, come un oblio che riaffiora e sussurra. Ma perché, perché, mi sono chiesto, non si ricorda nulla della nostra nascita, dei primi anni di vita, perché? Forse la memoria si sveglia col male, quando il senso brutale dell’ingiustizia comincia ad attanagliarci come vittime e soprattutto carnefici. Il presente, Teresa, non ha ricordi. Ma il tempo umano è un concetto fatto di male, il passato quanto il futuro non esisterebbero senza i germi del rimpianto e del desiderio. Noi siamo mossi da qualcosa di insano. Siamo spinti nei giorni da un veleno che ci brucia dentro e ci fa scoppiare come un motore, che inquina e muove il mondo. La combustione permette di formarci nel tempo, poi ci incenerisce. La Terra è un regno di scorie. Tu, neonata, profumi di meraviglia, anche il tuo sterco è inodore, ti nutri di latte perlaceo, non conosce ancora, il tuo intestino, la mattanza delle bestie, lo sfruttamento aggressivo dei campi, il saccheggio dei mari. E la tua pelle non ha grinze d’invidia, non è macchiata dall’ambizione di escrescenze, né le tue mani hanno graffi né calli di compromissione. Il tuo stesso pianto è il pianto di un angelo caduto non per colpa ma per disgrazia. Scusami, Teresa, se ti abbiamo condotto quaggiù, ma anche noi, ogni tanto, abbiamo bisogno di angeli: per ricordare non la nostra infanzia perduta, non i primi giorni di vita, non le poppate dissetanti e sfamanti, non l’ingenuità delle nostre richieste; no. Mi vergogno di quel che sarai, e già mi sento colpevole, perché so quanto questo mondo, nella tirannia del suo tempo, compromette la purezza. Ma ti ripeto che abbiamo bisogno di te, per ricordare che anche noi una volta non eravamo uomini. Il nostro frutto proibito è stato un baratto insensato: la rinuncia in cambio della conoscenza. Abbiamo rinunciato all’inconsapevolezza, all’incanto senza memoria, allo splendore della vita nel suo eterno presente, alla paradisiaca esplosione di magiche luci. E così abbiamo cominciato a ricordare, a provare rancore, macchinare vendette e desiderare supremazie, il potere come incatenamento del tempo, il denaro come controllo dello spazio. Il pianto di chi nasce è segnale e sigillo di quel morso che ci ha spogliati di ogni forma divina. Solo tu, neonata, e ancora per poco, hai luce di dea. Io ti guardo e capisco cosa abbiamo perduto, mentre tu, nel tuo paradiso silente, nella tua assenza incantata, non sai che l’inferno è vicino, e di tutta la tua bellezza non ricorderai nulla.
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Bernardo Giusti, nato a Firenze nel 1990, giovane speranza tra i romanzieri italiani ha pubblicato recentemente “Bivium” Edizioni Masso delle Fate. Teresa è nata da poco e Bernardo Giusti ha scelto Bebeez, nelle scorse settimane per condividere l’attesa per la prossima venuta, e adesso la gioia della presenza fisica.