Gianni Mercatali. Uomo della comunicazione a Firenze, ma non solo, “operaio della comunicazione”, come si racconta con ironia, quando ancora non era un mestiere, da sempre pioniere di nuovi linguaggi e sperimentatore nel creare eventi, ricorda degli anni in cui ha gestito locali di cui resta soprattutto il fattore umano con l’intimità di un confessore notturno. Vino, alcolici e musica il fil rouge che racconta un’epoca.
Quando è stato la prima volta che hai bevuto, con la consapevolezza e il gusto di farlo?
“Era l’inverno del ’63-’64 quando cominciai a fare il tam tam nelle scuole per il sabato pomeriggio al Rendez-vous, d’accordo con il proprietario e allora con 500 lire si aveva diritto ad
un analcolico, con 700 lire ad un alcolico e io amavo il whisky con ghiaccio nel Tumbler, oppure Whisky Sour, cocktail americano a base di whisky con limone e zucchero.”
Comincia così il tuo viaggio nel mondo dei locali?
“Con il Rendez-vous, nella piazzetta dietro il celebre Rivoire di Piazza della Signoria, un locale piuttosto piccolo, una cantina con due zone, una più intima e una per ballare, una piccola pista con un juke box e un bar. Il sabato pomeriggio c’era la coda fuori mentre nei pomeriggi della settimana era un ritrovo dall’ora del tè a prima di cena dove con 50 lire si poteva ascoltare una canzone e con 100 lire tre.
Un locale è anche il riflesso della città e della città che cambia.
“Infatti tra il 1968 e il ’70 diventa il primo locale gay a Firenze con il nome di Tabasco ed è all’avanguardia. Il Rendez-vous aveva già captato atmosfere internazionali con il “baby”, sullo stile dei pub inglesi dove la bottiglia di whisky era messa a testa in giù con un marchingegno per dosarlo: solo
3cc, un “baby” appunto e costava la metà.”
Il whisky era un simbolo internazionale. Com’è cambiato il modo di bere negli anni?
“Negli anni Sessanta era il distillato internazionale per eccellenza. In Italia c’era la grappa ma era locale e soprattutto era un fine pasto, un ‘grappino’, offerto spesso dai ristoratori fino a tutti gli anni Ottanta. E’ solo alla fine del decennio che nacque un prodotto superiore, il distillato d’uva. In poche parole, anziché distillare le vinacce, cioè un prodotto di scarto, si distillava direttamente il mosto. Altri distillati particolarmente legati al proprio territorio sono i francesi cognac, bas-armagnac che però hanno un’immagine più âgé, più femminile da una parte e più intima dall’altra, associata a un buon sigaro e al camino acceso, rispetto al consumo nei locali.”
“Se per oggi intendiamo da una decina di anni, vodka, mentre negli ultimi cinque anni il gin è diventato protagonista anche se in “mixology”. Il distillato puro è sempre meno richiesto. D’altronde anche la figura del barman è cambiata. Ormai si parla di bar tender, una figura più giovane e scanzonata che ha abbandonato il doppiopetto o lo smoking bianco e il gusto del piano bar, per accompagnarsi al lounge bar o alla discoteca.”
La tavola e il bere raccontano un mondo che per te ha sempre fatto rima con il mondo della comunicazione. Qual è stato il tuo percorso?
“Ho messo insieme alcune passioni e ne ho fatto un lavoro. Mi sono laureato in Storia a Lettere moderne con un corso sperimentale in Teoria e tecnica della comunicazione di massa e mi sono laureato nel 1973 con una tesi in storia contemporanea, La resistenza dei militari italiani nei lager nazisti dopo l’8 settembre del 1943, pubblicata, correlatore lo storico fiorentino Franco Cardini, sulla resistenza passiva dei militari che nella maggior parte dei casi non hanno ceduto al ricatto della Repubblica di Salò. Ne ho realizzato un film documentario.”
Il cinema è un’altra tua grande passione nella quale ti sei avventurato?
“Scrissi e realizzai un film girato in super 8 a 15 anni, Alla ricerca della felicità, esperienza divertente; poi sono stato aiuto regista in Diario di un italiano, tratto da un racconto di Vasco Pratolini, vicenda ambientata a Firenze nell’Oltrarno nel 1938 dopo la promulgazione delle leggi razziali; è la storia di una ragazza ebrea – interpretata da Mara Venier – che si innamora di un tipografo, che vinse la targa d’argento alla 33° edizione della Mostra del Cinema di Venezia.”
Forse avevi un avvenire sul grande schermo. Perché hai scelto un’altra strada, che poi certamente si è dimostrata di successo, ma tutta da tracciare?
“Ho subito l’educazione borghese della mia famiglia che non vedeva di buon occhio il mio trasferimento a Roma e la mia entrata nel cinema. Erano i primi anni Settanta e in quel periodo per iniziare la strada era l’aiuto alla regia di film erotici abbastanza discutibili che non mi interessavano, così ho deciso di coltivare la passione del cinema a livello personale.”
A Firenze la tua storia nei locali continua e si intreccia sempre più con quella della città.
“Nella primavera del 1966 il proprietario del Rendez-vous aprì un nuovo locale, più grande, in via dei Cimatori, La Siesta che ebbe un successo strepitoso, nel quale entrai in società. A settembre dello stesso anno ci fu a Firenze la settimana british perché la città si era gemellata con Edimburgo così ad esempio furono collocate alcune caratteristiche cabine telefoniche inglesi, quelle rosse, dalle quali si poteva telefonare grazie ad un accordo con l’allora società telefonica, la Teti. Non solo, sulla linea di trasporto pubblico 17 furono impiegati due pullman tipici inglesi a due piani; ci fu anche una sfilata di cornamuse e una serie di altre iniziative. Per una settimana trasformai La Siesta in un angolo tipicamente british organizzando uno spettacolo con Patty Pravo, la sua prima esibizione fuori del Piper di Roma che in quel momento era il riferimento per tutti i locali d’Italia. Fu sempre a La Siesta che i Motowns, un Gruppo di Liverpool, furono assoldati in esclusiva dal proprietario, portando un’atmosfera internazionale; tra l’altro nel 1967 vinsero il Cantagiro con Prendi la chitarra e vai e parteciparono anche al film Tre passi nel delirio nell’episodio diretto da Federico Fellini. Poi arriva il 4 novembre e l’alluvione distrugge il locale che riapre nel periodo di Natale riprendendo il suo corso”.
Anche tu hai ripreso il tuo corso, con un altro viaggio. Dove sei andato?
“Al Jolly Club di via dei Bardi dove per la prima volta ho portato il cabaret in discoteca e fu una novità che non passò sotto silenzio. Battere nuove strade è stato il mio mestiere, sperimentando linguaggi nuovi. Nel ’72 entrai in società con Fabio Baldi Papini all’Arcadia, un locale con tanti volti in via Pandolfini, piano bar, discoteca, sala lettura e teatro cabaret. Quest’ultimo è stato una vera palestra che ha visto passare su quel palco tutto il cabaret milanese, fiorentino e romano. Fu qui che i Gatti di Vicolo Miracoli si esibirono per la prima volta fuori Verona ed è qui che nacquero i Giancattivi e gli spettacoli di Riccardo Marasco, Giorgio Ariani, Lamberto Cipriani. Poi ci fu l’esperienza con Gino Paoli al Gala Club, un piano bar con ristorante dove per barman prendemmo Pierpaolo, soprannominato anche il Conte per la sua eleganza. Un personaggio conosciutissimo e apprezzato dai clienti per essere stato per lungo tempo barman del Bussolotto, il bar privé della Bussola che negli anni Sessanta era il locale numero uno in Italia, un altro momento di grande vitalità e sperimentazione.”
Poi cos’è successo?
“Ho continuato a occuparmi dei locali, non come gestore, ma curandone l’attività di comunicazione sia per i 40 anni dell’Enoteca Pichiorri di Firenze sia per i 70 della Capannina a Forte dei Marmi. Ho continuato così a frequentare il mondo della notte senza viverci, perché volevo una vita di famiglia, ma da consulente con la mia azienda di comunicazione”.
Cosa ti è restato di quegli anni?
“Soddisfazione economica certamente, ma soprattutto il lato umano. Sono stato per anni il confessore notturno, un po’ come il bagnino lo è di giorno e i locali sono stati una grande palestra per conoscere l’individuo, un mondo dove ho visto passare tantissime persone ma del quale ho conservato anche amici autentici, con la A maiuscola.”
“A me piace tutto quello che è memoria perché noi siamo quello che abbiamo vissuto così come i ricordi nascono dai sapori. Al bar come aperitivo bevo l’Americano che mi piace perché è rosso e ha il fascino di quel colore che vedevo nel bicchiere di mio padre quando ordinava il Campari soda – e me ne metteva una goccia nel bicchiere allungato con l’acqua – ma anche del bicchiere Tumbler. Se sono all’Harry’s bar per aperitivo bevo il Bellini e anche in questo caso c’è una memoria dell’infanzia perché per questo cocktail si usa la pesca bianca che è molto diffusa in Romagna e io sono mezzo romagnolo.
A tavola amo il vino abbinato secondo quello che mangio mentre a fine pasto difficilmente bevo un distillato a meno che non sia nella zona del limoncello come da Paolino a Capri. Il Rum e il Bas-Armagnac sono invece i ricordi di quando fumavo il sigaro”.
Non ci resta che decidere cosa berremo la prossima volta che ci potremo incontrare in un locale.
a cura di Ilaria Guidantoni