![Mirco Cattai davanti a un'opera di Aldo Mondino](https://bebeez.it/files/2021/03/28.-Mirco-Cattai-davanti-a-unopera-di-Aldo-Mondino-1024x768.jpg)
Non è un caso che esista l’espressione ‘tappeto volante’ per indicare la magia e l’incanto del volo, sogno che da sempre accompagna l’umanità, e che il protagonista sia proprio questa tela tessuta.
Il mondo dei tappeti schiude un viaggio incantato e ci fa entrare in una dimensione alternativa della pittura come abbiamo scoperto nella galleria milanese di Mirco Cattai che dal 1992 si dedica al tappeto orientale antico di alta qualità, campo in cui si è distinto al massimo livello nel mercato italiano e internazionale, realizzando un’ampia collezione di tappeti, anatolici, caucasici e persiani prodotti tra il XVI e il XIX secolo, frutto di un’attenta ricerca e della minuziosa selezione svolta in ogni parte del mondo, riunendo centinaia di esemplari. Oggi le case sono cambiate molto, più piccole, sempre più attente alla moda, dove però il tappeto sembra trovare ancora spazio. Abbiamo incontrato il gallerista per capire qualcosa di più di questo mondo affascinante e relativamente poco conosciuto che ha un linguaggio tutto da scoprire.
Nella Galleria colpisce un’opera di Aldo Mondino che ‘mima’ un tappeto richiamando la nostra attenzione. Il tappeto riesce bene a dialogare con l’arte contemporanea e con la pittura. L’autore, ci ha raccontato Mirco Cattai, deve a un viaggio nel Mediterraneo, tra Marocco e Oriente, l’inizio del suo interesse per un mondo certo lontano ma che, almeno dalla fine del Settecento, ha invaso con i propri colori la ben più paludata arte accademica. “Il primo contatto tra Aldo e l’Oriente è databile attorno alla metà degli anni Ottanta, con due mostre personali da Franz Paludetto a Torino dove “scomoda” il fantasma di Delacroix. Nel 1990 da Sperone Westwater a New York presenta i ritratti di trentasei sultani vissuti tra il 1200 e il 1920. Mette mano quindi ai tappeti, “sovrapposti in composizioni a parete, con colori vivaci e realizzati su eraclite, un materiale industriale utilizzato nell’edilizia”.
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Il periodo orientalista di Mondino, soprattutto nella prima fase, ci spiega Cattai, è considerato dalla critica come uno dei migliori della sua intera carriera, “anche in coincidenza con la sala personale alla Biennale di Venezia 1993, invitato da Achille Bonito Oliva, dove insieme ad alcuni grandi quadri è la presenza dal vivo dei dervisci rotanti a infiammare il pubblico per uno spettacolo di rara intensità.”
Quanto c’è di orientalismo nello sguardo di Mondino? Rsiponde Cattai: “E’ presente sì e no. Possiamo prendere come punto di partenza dell’Orientalismo la spedizione di Napoleone in Egitto nel 1798 e la successiva estensione del colonialismo nel Nord Africa, ecco che la pittura di grandi maestri francesi come Ingres, Delacroix e soprattutto Gerome, oppure di Alberto Pasini in Italia, sembra voler proporre un modello alternativo rispetto alle convenzioni della nascente borghesia urbana, un mondo sensuale e lascivo in taluni casi, che fonde il mito rousseiano del buon selvaggio alla proposta di una way of life colorata, dove la pittura con un’operazione davvero sinestetica trasferisce al di là della tela suoni, sapori, odori. Ora Mondino non ne fa una questione antropologica, la sua visione dell’Oriente è divertita e affascinata e gli permette di superare quei confini, seppur labili nel suo caso in quanto apertura mentale, che l’uomo occidentale, convinto della propria supremazia culturale, si autoimpone. Il punto sta invece nello sforzarsi di mettere in atto il tentativo di superamento di un limite, che l’arte in quanto territorio libero per eccellenza deve provare a compiere una via di fuga dal conformismo culturale e dalle pastoie ideologiche cui è stata suo malgrado costretta.”
Questo artista non è l’unico che guarda all’oriente, basti pensare ad Alighiero Boetti che fa realizzare le mappe e gli arazzi dalle tessitrici di Kabul. “Dal 1971 al 1979″, ci racconta ancora Cattai che lo ha conosciuto, “Boetti ci va almeno due volte l’anno prima dell’occupazione sovietica, condividendo questi viaggi con amici artisti, Salvo che nel frattempo aveva abbandonato il concettuale degli esordi per adottare la pittura, Francesco Clemente, suo assistente nello studio di via del Pantheon, che presto sceglierà l’India quale seconda fissa dimora. Insieme ad Aldo è però Luigi Ontani il nostro artista più orientalista, dallo stile volutamente cartolinesco e olografico. Quella che fino a tutti gli anni Ottanta poteva sembrare appunto una stranezza esotica, a partire dal 1989 trova sistematizzazione nella mostra Magiciens de la terre curata da Jean-Hubert Martin al Centre Pompidou, che cambia radicalmente l’approccio sensibile alla questione “altro da sé” e include nell’arte contemporanea nuovi universi in gran parte sconosciuti.”
Questo viaggio ci porterebbe molto lontano. Forse troppo. Torniamo a Mondino. Ci riferisce Cattai che l’artista racconta: “Stavo passeggiando nel souq di Tangeri, quello piccolo, quello che chiamano Soko Chico, alla spagnola, quando i miei occhi da miope si soffermano su un tappeto sbiadito in mezzo al vicolo. Aveva persino le frange. Mi avvicino, non è naturalmente un tappeto, ma un pezzo di materiale probabilmente da costruzione edile. Lo raccolgo e me lo porto sotto il braccio all’Hotel Minzah dove abitavo. Non sto nella pelle per dipingerci sopra: un tappeto naturalmente. Compro i sei colori a olio che vendono al Bazar e incomincio la prima di una lunga serie di opere, ispirate ai tappeti orientali.” Il materiale è un truciolato, usato come insonorizzatore, ignifugo e quindi ancora molto usato nei locali pubblici, si chiama eraclite, o tamburato, e lo inventarono durante il fascismo con il nome di Populit. La trama dei trucioli impastati una volta dipinta crea un trompe-l’oeil da cui anche celebri mercanti di tappeti come Halevim ed Eskenazy sono rimasti colpiti, diventandone collezionisti. A tutto questo bisogna anche aggiungere il benestare di Delacroix con la sua celebre frase: “Non ho mai visto un quadro bello come un tappeto persiano”. Con la serie i Tappeti, Aldo Mondino realizza le proprie bandiere di un mondo nuovo, riuscendo ad unire come nell’opera in Galleria un possibile accostamento tra l’antico e il contemporaneo, la tessitura e la pittura.
Proprio girando tra i tappeti abbiamo scoperto l’associazione tra pittura e arte del tappeto. “Spesso i tappeti sono accostati al quadro dove sono stati visti per la prima volta. I Tappeti Lotto sono ad esempio una delle tipologie più diffuse in Occidente di tappeti ottomani ‘classici’, caratterizzati da un motivo ad arabeschi modulari di colore giallo-oro disposti sul campo, normalmente di colore rosso. Questo disegno deve il suo nome al pittore veneziano Lorenzo Lotto (1480-1556) che l’ha rappresentato almeno due volte nei suoi oltre 200 dipinti: l’Elemosina di S. Antonio del 1542, nella Chiesa dei Santi Giovanni e Paolo a Venezia e il Gruppo di Famiglia del 1547, nella National Gallery di Londra.
Tappeti di questo tipo compaiono anche nei quadri di altri pittori italiani fin dall’inizio del ’500, a cominciare da Sebastiano del Piombo (Ritratto del Cardinale Bandinello Sauli del 1516), e in seguito in dipinti di scuola portoghese, fiamminga, olandese, inglese, ma anche nella pittura ungherese di catafalco del XVII secolo. Lo schema compositivo del campo dei Lotto è costituito da file parallele e sfalsate di losanghe cruciformi e medaglioni ottagonali in varie tonalità di giallo, solitamente contornati di nero, su fondo rosso. Sono rarissime le varianti cromatiche, anche se si conoscono alcuni esemplari con motivi del campo blu e verde oppure con il fondo blu o nero. Per quanto riguarda l’origine del motivo, teorie più recenti hanno appurato per i Lotto, così come per gli Holbein a disegno piccolo, derivano dai motivi tradizionali dei popoli turchi dell’Asia Centrale, ed in particolare da quelli Timuridi elaborati presso ateliers vicini alla Corte Ottomana. Purtroppo salvo un piccolo frammento (presso il Museo Islamico Benaki di Atene) non è sopravvissuto alcun tappeto Timuride. La produzione dei Lotto si estende per un arco di oltre due secoli, dalla fine del ‘400 fino ai primi del ’700 quando il motivo scompare senza evolversi ulteriormente. L’impianto compositivo ha subito minime variazioni nel tempo, conservando sempre il caratteristico motivo ad arabeschi. Gradualmente si è passati dai grandi tappeti tessuti in atelier organizzati a quelli di villaggio, di dimensioni ridotte, con bordo ampio e campo compresso. In funzione del disegno del campo è ormai consolidata la classificazione proposta dallo studioso americano Charles Grant Ellis in tappeti Lotto di stile “anatolico”, più arioso ed elegante, di stile “kilim”, molto più geometrico con tipici elementi scalettati che ricordano appunto i motivi dei kilim anatolici ed infine di stile “ornato” caratterizzato dai riccioli ad uncino. Il disegno è sempre modulare e la dimensione dei vari elementi varia notevolmente a volte anche nell’ambito dello stesso tappeto. Da uno studio recente risulta che i Lotto presentano una straordinaria varietà dei bordi, che impiegano non meno di 35 patterns (senza contare le varianti).
Fra i Lotto monumentali, di oltre 5 metri spiccano quello del Museo del Bargello e quello della collezione Bruschettini di Genova, esposto nel 2018 alla bellissima mostra del Palazzo Ducale di Urbino. Altri esemplari di grandi dimensioni, sempre con campo in stile Anatolico e bordo a cartigli, si trovano nel Textile Museum e nell’Arts Institute of Chicago.”
a cura di Ilaria Guidantoni