In Italia tra il 2020 e la prima metà del 2021 sono stati investiti solo 110 milioni di euro nell’insurtech: 50 milioni nel 2020 e altri 60 milioni nella prima metà di quest’anno. Un dato che somma gli investimenti in startup insurtech, gli investimenti delle compagnie assicurative in collaborazioni con startup e gli investimenti delle compagnie in sperimentazioni interne. Ben pochi, se confrontati ai 2,8 miliardi della Gran Bretagna, ai 2,5 miliardi della Germania e ai 2,2 miliardi della Francia. Lo rileva l’Insurtech Investment Index Report, ideato dall’Italian Insurtech Association (IIA). Quest’ultima, nata nel marzo 2020 (si veda altro articolo di BeBeez), è l’associazione che riunisce circa 200 società attive nella filiera assicurativa, che rappresenta oggi oltre il 7% del pil italiano.
I dati elaborati dal’IIA (che conta tra i soci senior realtà come Crif, Reale Group, Leitha e Accenture) in collaborazione con l’Osservatorio Fintech e Insurtech del Politecnico di Milano, sono stati presentati in una conferenza stampa propedeutica alla seconda edizione dell’Italian Insurtech Summit 2021, che si terrà i prossimi 20 e 21 settembre (si vedano qui il comunicato stampa e qui la presentazione completa).
Sul tema degli investimenti nell’insurtech italiano, Filippo Maria Renga, direttore dell’Osservatorio Fintech & Insurtech del Politecnico di Milano, ha commentato: “Nella prima parte del 2021 le compagnie assicurative italiane denotano una forte inerzia negli investimenti in startup e pmi insurtech, con ben il 58% di esse che non ne ha effettuato nessuno, e il restante 42% che non ha aumentato gli sforzi rispetto al 2020” Tuttavia c’è spazio per un modrato ottimismo. Aggiunge Renga: “L’outlook sulla fine del 2021 è però più positivo di quanto era stato dichiarato a fine 2020”. I dati di CB Insights rivelano che anche nel periodo 2011-2020 Gran Bretagna e Germania hanno trainato gli investimenti nell’insurtech europeo, mentre in Italia sono stati pari solo a 0,1 miliardi, al quinto posto dopo la Svezia. L’Italia occupa la stessa posizione per numero di startup insurtech censite: solo 11, contro le 98 della Gran Bretagna e le 44 della Germania. Non è un caso che tra le startup europee che hanno raccolto oltre 50 milioni di dollari, non ne rientri nessuna che sia nata a sud delle Alpi.
Tuttavia l’Europa nel primo semestre di quest’anno ha ridotto il divario rispetto al nord America per investimenti globali. A livello mondiale, nel 2016-2021 i maggiori investitori in insurtech sono stati i fondi di venture capital americani (11,2 miliardi) e le compagnie assicurative (8,9 miliardi), seguite dai fondi di venture capital asiatici. In particolare ad Allianz, Axa, Zurich e Aviva, fa capo il 75% del totale degli investimenti corporate nell’insurtech.
Per quanto riguarda l’Italia, l’IIA ha elaborato l’Insurtech Investment Index che valuta gli investimenti in Italia. Ebbene, per ora il voto è 18/30, “perché il settore assicurativo non accelera a sufficienza negli investimenti in insurtech, mantiene un approccio di breve periodo all’innovazione e sono state realizzate poche operazioni nelle startup insurtech italiane” ha spiegato il presidente di IIA Simone Ranucci Brandimarte. Renga ha aggiunto: “Abbiamo dato la sufficienza all’Italia perché non mancano iniziative di una certa tangibilità, ma il problema è che non stiamo crescendo nell’insurtech”.
In Italia infatti le aziende assicurative sono aperte alla collaborazione, ma prediligono ancora sviluppare internamente la maggior parte delle soluzioni, ricorrendo solo in misura marginale all’investimento in startup insurtech: infatti solo il 22% delle compagnie ha effettuato almeno un investimento nei primi 6 mesi del 2021 (19% a fine 2020), mentre il 66% ha avviato almeno un progetto interno (63% a fine 2020) anche se l’80% ha realizzato almeno una partnership con start up o altri player dell’innovazione (75% a fine 2020). E se il 58% delle compagnie ha dichiarato di non aver effettuato alcun investimento in startup e secondo le loro previsioni, come riferiva più sopra Renga, la situazione non cambierà nella seconda metà dell’anno, con il volume di investimenti che rimarrà pressoché invariato.
Gerardo Di Francesco, segretario generale dell’IIA, ha ricordato che una ricerca condotta assieme a Simbiosi, società di consulenza specializzata sul marketing digitale, ha rilevato un disallineamento nelle aspettative sul tema collaborazione tra startup e compagnie assicurative. Per le prime la collaborazione è money-driven (le compagnie assicurative sono viste come un cliente o investitore), mentre le compagnie vedono le insurtech come strumento di innovazione o integrazione. Per l’IIA occorre aumentare il numero dei poli nelle università o compagnie assicurative dove si creino dei dialoghi tra startup e grandi compagnie. IRenga ha aggiunto che sono anche utili partnership e progetti interni delle compagnie con le insurtech, che oggi ancora latitano: il 33% delle compagnie assicurative non ha attivi progetti insurtech e se ci sono, mediamente sono meno di 2 collaborazioni per società. Le collaborazioni sono ostacolate ad esempio dalle richieste di iscrizione all’albo fornitori, che implicano la consegna dei bilanci di almeno 10 anni, mentre le startup sono per definizione giovani. Natalia Antongiovanni, business development officer di Insurance Consulting Group (ICG), ha raccomandato un cambio normativo sull’albo fornitori e chiarito che non bastano le sperimentazioni (dette anche Proof of Concept, o PoC).
Andrea Birolo, responsabile del corporate venture capital di Reale Group, ha messo in guardia dalla “trappola della sperimentazione”: a suo avviso, molte grandi aziende sono brave a strutturare il PoC, ma poi non sono in grado di fare uno scaleup per mancanza di pianificazione a monte. “Probabilmente le grandi società temono di strutturare PoC grandi, a causa dei connessi rischi reputazionali. Inoltre, le sperimentazioni funzionano solo se sono coinvolti anche i top manager”, ha detto Birolo.
Ad aggravare lo svantaggio italiano rispetto agli altri Paesi sono inoltre le competenze digitali nel settore assicurativo. Solo il 34% delle compagnie intervistate ritiene gli asset tecnologici interni adeguati per far fronte alle sfide del mercato, rispetto al 66% della media europea. Solo nel 34% delle compagnie esiste una struttura dedicata all’innovazione, contro il 77% in Europa. Forte il divario anche per quanto riguarda la presenza di una digital unit (2% in Italia contro l’85% in Europa). Il 71% delle compagnie ritiene infatti che ci sia un gap tecnico e digitale a livello di competenze che limita la capacità di sviluppare nuovi prodotti e servizi che siano in linea con le nuove esigenze di un consumatore sempre più digitale.
Infatti, il consumatore digitale, che oggi rappresenta il 32% del target assicurativo, crescerà sempre più nei prossimi anni in modo esponenziale. Entro 10 anni l’82% delle persone interessate a prodotti assicurativi sarà digitale e, secondo i principali istituti di ricerca, l’offerta di questo genere di polizze crescerà in Europa del 30-40% in un decennio. I segnali di questo trend, sotto la spinta di nuove abitudini e stili di vita come la micro mobilità, le auto e le case sempre più connesse, la sharing economy, una maggior attenzione alla salute, sono già visibili, visto che sono state circa 400 mila le persone che hanno acquistato polizze digitali nei primi sei mesi del 2021, il 114% in più rispetto al 2020.
Dall’indagine condotta dall’EFMA (European Financial Management Association) in collaborazione con IIA, è emerso che le polizze digitali avranno nei prossimi 10 anni un ruolo sempre più importante tra i prodotti assicurativi nei vari ambiti. In particolare si stima che le polizze digitali in ambito auto, esclusa l’RC auto che è obbligatoria, saranno il 31% sul totale nel 2030, nel settore viaggi le polizze digitali peseranno per il 43%, per il 36% per quanto riguarda la mobilità, il 28% per le polizze casa, il 24% per le assicurazioni su infortuni. Il 24% delle assicurazioni per la cura degli animali sarà digitale. La pandemia ha infatti trasformato il settore assicurativo, secondo tre direttrici: è aumentata da parte dei consumatori la consapevolezza sull’importanza di proteggersi (salute, reddito) e la percezione dell’utilità dell’industria assicurativa, accelerandone la domanda; è aumentato inoltre l’interesse sull’offerta, specialmente quella digitale, che non è più solo un canale distributivo, ma è diventato un abilitatore di nuovi servizi e prodotti.
Per questo motivo l’auspicio di IIA è di aumentare gli investimenti in insurtech dai 50 milioni del 2020 a 1 miliardo di euro nel 2023 (in linea con quelli della Francia nel 2020), obiettivo raggiungibile se tutti gli operatori della filiera creano e acquisiscono competenze in campo digitale, maggiori sperimentazioni e collaborazioni, creazione di poli insurtech, sviluppo di un modello open sulla flasariga di quanto accade in campo creditizio.
In proposito, Simone Ranucci Brandimarte, presidente di IIA, ha dichiarato: “Il traguardo è assolutamente raggiungibile, in quanto la cifra di 1 miliardo rappresenta il 5% del totale degli investimenti del settore assicurativo. Come IIA ribadiamo l’urgenza di indirizzare tali investimenti in insurtech affinché si inneschi un circolo virtuoso a vantaggio di tutto il settore che sempre di più sarà trainato dal digitale, sia in termini di domanda che di offerta, altrimenti c’è il rischio di rimanere schiacciati dai player stranieri”. A suo avviso, occorrono anche incentivi agli invetimenti nell’insurtech. In tal senso, IIA ha creato un team che lavorerà a proposte concrete.
Birolo ha aggiunto: “I dati condivisi da IIA mostrano che gli investimenti nell’insurtech continuano, a livello globale, a crescere a un ritmo molto sostenuto, portando con sé anche un graduale percorso di maturazione dei modelli di business. In Italia la situazione è ancora molto diversa, sia a livello dell’ammontare investito, sia per il numero di startup insurtech nate sul nostro territorio. Ciononostante Reale Group crede molto nelle opportunità offerte dagli investimenti in start up e si è dotato, fin dal 2018, della divisione corporate venturing proprio con l’obiettivo di ricercare realtà con le quali sviluppare sinergie e partnership industriali per tutto il gruppo”.
Natalia Bongiovanni, business development officer di OCG, ha concluso: “Credere in un partner tecnologico innovativo, startup o meno, è in parte un atto di fiducia, perché non sempre il vantaggio che ne deriva si riflette immediatamente sul combined ratio. In Italia più che in altri Paesi, le rendite di posizione rallentano il processo di trasformazione digitale e spesso si investe sull’innovazione per una richiesta del mercato o per seguire i trend di Stati Uniti e resto d’Europa, piuttosto che per una reale percezione dei vantaggi che ne derivano”.