Una selezione di artisti e spettacoli provenienti da Europa e Medio Oriente che ha pochi eguali è quella offerta dalla Biennale Teatro di Venezia diretta da Stefano Ricci e Gianni Forte: dai Leoni d’Oro e d’Argento a Armando Punzo e al collettivo belga FC Bergman, alle performance di Giacomo Garaffoni e Federica Rosellini e del palestinese Bashar Murkus, la sorprendente indagine sociologica dello svedese Mattias Andersson, le suggestioni visive delle francesi Goudal e Poésy, la singolarità degli spagnoli di El Conde de Torrefel e la coraggiosa testimonianza dello svizzero Boris Nikitin.
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Dopo il blu del 2021 e il rosso dello scorso anno, è il verde il colore che distingue l’edizione 2023 della Biennale Teatro appena conclusasi: i direttori artistici Stefano Ricci e Gianni Forte titolano la rassegna Emerald, smeraldo, pietra dei prodigi, la gemma attraverso la quale osservare il mondo, ma anche il mistero e l’inspiegabile, infine il verde come segnale di risveglio, rinascita non solo della natura e dell’ambiente in cui viviamo ma, auspicabilmente, anche di quella a livello morale. La scelta dei lavori selezionati dimostra la continuità della linea artistica operata sin dall’inizio del loro mandato: far conoscere artisti e spettacoli italiani e stranieri ancora poco noti o mai visti da noi nelle cui opere sofisticate tecnologie si mescolano all’uso del video e della musica. Di alto profilo è stata anche l’assegnazione dei Leoni alla carriera: quello d’oro a Armando Punzo che ha dedicato gran parte della sua attività di regista alla Compagnia della Fortezza, creata con i detenuti del carcere di Volterra, che ci ha regalato spettacoli memorabili prima dentro le sorvegliate mura della prigione e in anni successivi anche in tournée nei teatri, e quello d’argento a FC Bergman, il collettivo belga fondato nel 2008 ad Anversa che nelle sue creazioni amalgama arti visive, cinema e letteratura e il cui nome è un omaggio al regista svedese Ingmar Bergman. Per inaugurare il 51° Festival Internazionale del Teatro, Armando Punzo ha presentato Naturae, l’ultimo lavoro della Compagnia in cui è anche in scena, ricco di molti riferimenti e citazioni (dal sufismo agli echi del teatro orientale) per approfondire la ricerca, iniziata da otto anni, dell’ordine e della bellezza nella natura umana. FC Bergman ambienta Het Land Nod (La terra di Nod) nella Galleria Rubens del Museo Reale di Belle Arti di Anversa, ricreata in un capannone della zona industriale di Marghera, dove è in mostra il dipinto Il colpo di lancia, raffigurante Gesù in croce tra i ladroni, immaginandola destinata a un restauro che si presenta però assai problematico data la difficoltà e gli imprevisti nel rimuoverla dalla parete, usando ironia, doti di equilibrismo e totale assenza di parola.
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Federica Rosellini, che ricordiamo protagonista dell’Amleto diretto da Antonio Latella ma anche autrice e regista di Carne blu, e Giacomo Garaffoni, vincitore lo scorso anno della Biennale College Autori under 40, sono gli artefici di Veronica: la prima ne firma la regia e ne è anche interprete, il secondo è l’autore. Al teatro Piccolo Arsenale ci accoglie una ragazza seduta su uno sgabello che incide la propria voce su un vecchio registratore a bobine, oltre a quest’ultimo vediamo un apparato composto da cavi, computer e macchinari: sono gli strumenti per riportare in vita una delle undici donne – amiche al punto di chiamarsi tra loro “mogli” – appunto Veronica, mancata dieci anni prima davanti al suo compagno mentre era sdraiata su un divano e della quale è rimasta solamente una macchia blu con la forma del suo corpo su quel sofà. A turno tutte quante intingeranno le dita in quel colore, operando una sorta di automarchiatura. I simboli sono molti e non sempre decifrabili: Rosellini, a seno nudo, si taglia ciocche di capelli per posizionarle a mo’ di baffi e pizzetto per poi dar vita insieme a un’altra delle “mogli” a un casto amplesso nell’intrico verde di arbusti e rami. C’è infine la scalata di una parete a cui non tutte si accingono mentre colpi di martello sembrano voler smantellare il tavolo che sostiene l’apparecchiatura tecnologica. Siamo nel territorio della performance ai confini con l’installazione, animata, oltre che da Rosellini, da Serena Dibiase, Nico Guerzoni, Nunzia Picciallo ed Elena Rivoltini. La complessa e originale scenografia è di Paola Villani mentre il suono è demandato a Nicola Ratti e Marina Ruggeri.
Uno degli spettacoli che più ci ha colpito e favorevolmente impressionato è stato Noi che abbiamo potuto rivivere tutto da capo, una pièce svedese scritta e diretta da Matthias Andersson, oggi a capo del glorioso Dramaten, il Teatro Reale di Stoccolma, che fu casa per Ingmar Bergman, e prodotta dallo stesso Dramaten insieme al Backa Teater di Goteborg di cui lo stesso Andersson, una delle figure più interessanti e pluripremiate della scena nordeuropea, è stato direttore. Lo spunto viene da una serie d’interviste che un team di sociologi ha realizzato con un campione (per la precisione 137 persone) di diversa estrazione socioeconomica al quale è stato chiesto cosa avrebbero fatto se avessero potuto rivivere la loro vita. Ecco allora, con tanto di nomi e cognomi che appaiono in sovrimpressione, palesarsi i personaggi che soddisfano la nostra curiosità in una infinita varietà di risposte. C’è chi avrebbe scelto di studiare a scuola il francese piuttosto che il tedesco, chi avrebbe aspettato a fare un figlio sino ai 30/35 anni, un altro che a 17 anni avrebbe potuto cogliere una chance mai più ripetutasi, chi avrebbe conservato lo stesso nome ma con una diversa identità, una donna avrebbe fatto volentieri la contadina anziché vivere in un ambiente urbano, un padre avrebbe trattato meglio il figlio, un uomo si sarebbe dedicato di più al sesso e un altro avrebbe scelto di mangiare più sano. Il flusso delle risposte s’interrompe e i bravissimi performer danno vita a una coreografia a luci accese in sala. Riprendono le testimonianze e si parla di danza: una ragazza avrebbe intrapreso quella classica ma il padre glielo proibì; un figlio, separatisi i genitori, rimpiange di non esser andato a vivere con la madre avendo invece scelto il padre. Non mancano piccole recriminazioni e rivalse. Parla uno dei componenti di una coppia gay e ricorda come odiasse il modo in cui il compagno mangiava e i rumori che produceva. Le parole lasciano poi il posto a un’azione in cui due coppie etero a tavola iniziano a litigare sino al punto di procedere a uno scambio: l’uomo e la donna lasciati in asso non la prendono bene e procedono col rimuovere il/la partner da tutte le fotografie di casa. A queste unioni in crisi fanno da contraltare due coppie omosessuali – lei con lei, lui con lui – apparentemente serene che incontrano un gruppo di amici. E’ la volta delle ultime testimonianze in cui si parla delle carenze del welfare: chi avrebbe desiderato avere più istruzione o la possibilità di un lavoro migliore. S’innesta la problematica della terza età, simboleggiata da un’anziana in carrozzina mentre irrompono le note di Forever Young cantata dagli Alphaville.
Ora le domande poste cambiano: saresti disposto/a a vivere la tua vita più e più volte e chi avresti voluto essere? A seguire una pletora di variegate opinioni: chi avrebbe acconsentito a patto di avere una moglie diversa, chi avrebbe fatto coming out molto prima, chi non avrebbe mantenuto un’amicizia per 16 anni per poi scoprire di essere stata ingiustamente accusata di un crimine dalla migliore amica. Tocca adesso a Edith Piaf con Non, je ne regrette rien siglare queste dichiarazioni. A una precedente coreografia (un simbolico funerale?) con i performer in abito lungo e nero, per il finale se ne sostituisce un’altra in cui uomini e donne sono tutti vestiti da spose: volteggiano leggiadri compresa l’anziana in carrozzina. “Dal momento che il teatro – afferma Andersson – ha sempre a che fare con il concetto di cosa succederebbe se… piuttosto che con la creazione di immagini fisse e definite, esso ha alla base qualcosa di aperto e libero in termini di immaginazione e associazioni. Il teatro quindi ci rivela che nessun essere umano è costretto a essere intrappolato in una certa situazione o posizione fissa: tutto può cambiare.” In prima italiana al Teatro delle Tese lo spettacolo si è avvalso del perfetto gioco di squadra di otto eccellenti interpreti (Adel Darwish, Ylva Gallon, Rasmus Lindgren, Marie Richardson, Magnus Roosmann, Nemanja Stojanovic, Kjell Wilhelmsen e Nina Zanjani) impegnati in una sorta di concerto a più voci; scene e costumi di Maja Kall e coreografia di Cecilia Milocco.
Per la prima volta in cartellone alla Biennale, l’eclettico collettivo spagnolo El Conde de Torrefel ha proposto La Plaza, testo di Pablo Gisbert che firma anche la regia insieme a Tanja Beyeler. Il sipario dello spazio alle Tese dei Soppalchi si apre mostrandoci il palcoscenico coperto interamente da un coloratissimo tappeto di fiori e lumini che ci fanno pensare a un cimitero. Appare una scritta che ci avverte che “Il teatro del futuro consisterà in rappresentazioni del nulla, in silenzio e senza alcuna presenza umana sul palco. Nessuno vorrà più ascoltare né storie né idee. Nessuno vorrà più vedere nessuno. L’astrazione totale.” Un po’ smarriti da questo incipit, ci viene precisato che quanto stiamo per vedere si ripete allo stesso modo in ogni angolo del mondo ogni giorno per 365 giorni. A concludere questa introduzione, leggiamo una poesia dello stesso Gisbert. Cambia la scena e compaiono diversi personaggi: un ragazzo con la maglia dei calciatori marocchini, un gruppo di musulmani, due uomini si scambiano i numeri di telefono, altri due si abbracciano; in un interno di condominio una donna nuda si avvia verso una stanza, un’anziana cena da sola e un ragazzo siede al computer. Si torna all’aperto: una giovane donna ubriaca è a terra senza che nessuno la degni d’attenzione: alcuni teppistelli le tolgono gli slip e si fanno selfie con quel trofeo quando lei finalmente si sveglia e li allontana. L’amore che nutre per Vienna viene ricordato da una signora a un amico e due ragazzi disquisiscono sulla differenza tra cultura e intelligenza. Un gruppetto di donne intente a conversare viene inspiegabilmente sorvegliato da alcuni militari con i mitra spianati. A sciogliere i nostri interrogativi ci viene in soccorso una voce fuori campo per dirci che nello spettacolo non succede e non succederà nulla: ciò abbiamo visto è quanto accade nel tragitto che un qualunque spettatore compie da casa al teatro. Al suo ritorno, lo stesso ci mette a parte della sua intimità: una cena frugale e, per rilassarsi, una masturbazione davanti a un video con una pornostar. L’uomo è affascinato da quell’attrice: tramite Google scopre che si tratta di Linda Lovelace, deceduta a a soli 53 anni. Quest’agnizione e il fatto di essersi eccitato davanti a una persona morta lo lascia profondamente turbato. Dal racconto si ritorna alla scena che ancora di morte ci parla: due genitori affranti osservano il corpo della figlia spirata che giace su una barella mentre nella totale indifferenza una troupe televisiva li sta filmando.
Aleggia un forte pessimismo nelle ultime parole dell’uomo che riassume il destino dell’umanità nel lavorare, fare sesso e morire. Coerente con il suo percorso artistico, il collettivo assembla testo e immagini e usa il mezzo teatrale per far emergere tensioni che caratterizzano la società europea dei nostri giorni. “La natura del teatro come mezzo di comunicazione così come la realtà contemporanea che riflette è in crisi: c’è bisogno di una rivoluzione della sua convenzione.” Come ci aspettavamo, nessuno dei 6 performer spagnoli e gli 8 italiani (tutti sempre con il volto coperto da maschere di lattice) né i registi compaiono alla fine per gli applausi e il sipario resta chiuso.
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Forti e suggestive emozioni visive e uditive ce le ha procurate Anima, la performance ideata da Noémie Goudal, artista visiva, e Maelle Poésy, regista, autrice e attrice, ora anche direttrice artistica del Théatre Dijon Bourgogne, con il prezioso supporto delle musiche originali di Chloé Thévenin e le scene di Hélène Jourdan, già ospitata in anteprima al festival di Avignone dello scorso anno. In uno spazio all’aperto all’interno del Parco Albanese di Mestre vengono allestiti tre enormi schermi e dalle immagini proiettate comprendiamo subito che il tema sarà l’ambiente, il suo equilibrio seriamente minacciato e il rapporto decisamente conflittuale che l’uomo intrattiene con la natura. A catalizzare la nostra attenzione sono le immagini di una foresta che vedremo presto distrutta dalle fiamme, ma, mentre la proiezione è in corso, da alcuni tecnici/performer agli schermi vengono incollati dei pannelli che riproducono frammenti delle stesse immagini. Al fuoco dirompente e distruttivo subentra lentamente l’acqua che spegne l’incendio e si trasforma poi in ghiaccio, riportandoci a un lontano passato di glaciazioni e desertificazioni. Con una tecnica e congegni assai sofisticati, solo in uno dei tre schermi l’acqua, in piccoli rivoli, scorre veramente. Tutto questo è avvolto da una musica incessante e ipnotica che d’improvviso cessa come scompaiono i filmati per lasciare il posto a una struttura metallica in cui volteggia a mezz’aria l’equilibrista e artista circense Chloé Moglia: le sue acrobazie sono lentissime e misurate, un tacito monito allo spettatore. L’intento di Anima ci pare quello di focalizzarsi non solo sull’ambiente ma anche sulla condizione umana: entrambi sono fragili e possono cadere come l’equilibrista o autodistruggersi. Urge quindi rallentare i ritmi e mostrare più rispetto e considerazione per quanto ci circonda. Le autrici hanno fatto riferimento alle scoperte dello scienziato James Lovelock negli anni settanta per il quale la Terra deve essere considerata come un’entità in cui tutte le creature viventi sono collegate attraverso un ecosistema interdipendente, inoltre ci sono cenni agli studi dei paleoclimatologi che, attraverso l’osservazione dei dati pregressi, sono in grado di prevedere il futuro dell’essere umano nel suo fragile habitat. Solida preparazione, affascinante commistione di video, musica e performance per uno spettacolo che lascia il segno.
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Bashar Murkus è un giovane regista e drammaturgo di origini palestinesi che vive e lavora a Haifa dove dirige il Khashabi Theatre, teatro palestinese indipendente con il cui ensemble ha ideato e portato al teatro Alle Tese la performance visiva Milk, drammaturgia di Khulood Basel, scene di Majdala Khour e musiche di Raymond Haddad. In scena troviamo un gruppo di donne, giovani e più mature, alcune affette da leggera disabilità, tutte munite di un corsetto dal quale emerge un prorompente seno finto, intente a impilare alcuni manichini maschili mutilati e bucherellati con cui fingono impossibili tenerezze, amplessi e orgasmi e che alla fine impilano a terra. Segue il doloroso parto di una di loro dal cui ventre esce un giovanotto con il lunghissimo cordone ombelicale ancora attaccato: il figlio lo recide e rianima la madre che sembrava morta. Il ragazzo poi gioca, abbraccia e bacia a turno tutte le donne che nel frattempo si sono liberate di quell’armatura e in una sorta di piscina rettangolare coperta da enormi cuscini si apprestano a spostarli con impeto e collera, quasi una missione da compiere. In assenza del dialogo, tentiamo anche qui di decifrare i molti simboli: certamente la denuncia di un’oppressione politica (Basel è un’attivista per la causa palestinese) e sociale, il doloroso risultato di una frattura insanabile, la ripetitività di un passato che è eterno presente. “In Milk – afferma Murkus – non raccontiamo una sola storia, ma tante, tantissime storie. Tutte hanno in comune il fatto di aver perso la capacità di finire. Quest’opera di teatro visivo parla delle battaglie che rimangono per sempre in sospeso: sono un vero e proprio inferno. Come avviene un disastro? In un attimo. Come finisce? Non finisce mai.”
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Da un contesto sociopolitico come quello di Milk passiamo ad uno di carattere del tutto privato: è Sul morire di Boris Nikitin, drammaturgo e regista, figlio di immigrati ucraini, slovacchi, francesi ed ebrei, nato a Basilea nel 1979. Da oltre 10 anni attraverso le sue produzioni e i suoi testi lavora sulla rappresentazione della realtà e dell’identità, muovendosi tra fiction, performance e documentario. Presentato alla Sala d’Armi dell’Arsenale, Sul morire prende lo spunto da una sua riscrittura dell’Amleto di Shakespeare che debutterà a breve ma consiste in un reading di una sorta di diario che ha deciso di palesare al pubblico. Il tema è la malattia, lento decadimento e morte del padre, chiaro riferimento a quello di Amleto, del quale ripercorre il calvario, ricordando che dapprima rifiutava strenuamente la realtà del suo stato di salute ma che poi col passar del tempo l’ha dovuta accettare e subire. A questo tema Boris intreccia quello del suo sofferto coming out, fatto non più da giovanissimo e dopo molte difficoltà a riconoscere la propria identità. “Quando avevo 17 anni pensavo che fosse impossibile dichiarare la mia omosessualità: era davvero fuori discussione. Nessuno doveva saperlo, altrimenti il mondo sarebbe crollato. Poi a 20 anni ho aperto quella porta e l’ho attraversata. Da allora so che il futuro è imprevedibile.” Una testimonianza rigorosa, sincera ed emozionante, utile a tanti giovani, con la quale abbiamo chiuso al meglio le nostre visioni alla Biennale Teatro 2023: quale colore ci riserva il prossimo anno?
a cura di Mario Cervio Gualersi