di Norman Pepe,
managing partner dello studio legale ILS
Nelle ultime settimane si sono susseguite sulla stampa specializzata una serie di indiscrezioni riguardanti un disegno di legge per la riforma del mercato degli NPL formulato da alcuni esponenti della maggioranza di governo (si veda altro articolo di BeBeez). Stando alle notizie di stampa, il Governo avrebbe, in un primo momento, valutato di procedere all’adozione del testo mediante decretazione di urgenza, salvo poi un successivo ripensamento per permettere lo svolgimento di un più ampio dibattito sull’argomento. Che il cambio di rotta sia dovuto a divergenze di vedute all’interno della maggioranza, a una presa di coscienza della delicatezza delle questioni trattate e delle implicazioni del provvedimento o al monito della BCE in tema di tassazione dei cc.dd. extraprofitti bancari, ovvero a una combinazione di quanto sopra, non è dato sapere.
I contenuti del disegno di legge sono noti agli addetti ai lavori. In sostanza, si prevede che, in caso di cessione di crediti deteriorati classificati come tali all’interno di un certo lasso temporale, il debitore ceduto debba avere la possibilità di liberarsi dal proprio debito versando un importo parametrato al corrispettivo di cessione del relativo credito, maggiorato di un mark-up compreso tra il 20% e il 40%.
Lo spirito della proposta che traspare dal testo del disegno di legge (e da alcuni suoi passaggi introduttivi, in particolare) sembra essere il seguente: le banche sono costrette a svendere i crediti deteriorati a investitori speculativi che realizzano enormi guadagni dall’incasso dei relativi crediti e, pertanto, occorre dare ai debitori la possibilità di liberarsi dal debito unilateralmente a condizioni prefissate dalla legge.
A mio modo di vedere, questa ricostruzione è una generalizzazione priva di fondamento in via fattuale, discutibile dal punto di vista dei valori che l’ordinamento dovrebbe proteggere e, da ultimo, risponde ad una logica solo apparentemente commutativa. Mi spiego meglio.
Anche forse a causa di recenti sensionalismi di un certo giornalismo di inchiesta, l’idea che il cittadino medio ha del mercato degli NPL è che investitori privi di scrupoli costringono le banche a cedere i loro stock di crediti deteriorati a prezzi irrisori speculando avidamente per ottenere ritorni da capogiro. Nella esperienza degli addetti ai lavori, questa non è certamente la normalità dei casi. La maggioranza delle operazioni è realizzata da investitori istituzionali internazionali e domestici che, con l’aiuto di servicer italiani specializzati, valutano i portafogli di crediti in sofferenza messi in vendita dalle banche e presentano ai cedenti, all’esito di norma di una gara competitiva, un’offerta economica che rappresenta una attualizzazione dei flussi di cassa attesi del portafoglio (che, per massima chiarezza, rappresentano solitamente solo un di cui del valore nominale dei relativi crediti). Il tasso di attualizzazione riflette l’(alto) profilo di rischio dell’investimento (trattandosi di asset distressed) mentre il periodo di attualizzazione è funzione dei tempi (purtroppo ancora molto lunghi) delle procedure di recupero giudiziale in Italia. Non sorprende quindi che lo sconto applicato al valore nominale del portafoglio possa essere rilevante. Alla luce di queste considerazioni, sarebbe auspicabile che venisse avviata un’opera (anche mediatica) di riabilitazione della reputazione di questa industry sia presso le istituzioni sia, più in generale, presso il pubblico.
Quanto ai valori che andrebbero preservati nel governo di questo sistema, riterrei che la tutela della pace sociale dovrebbe assurgere a principale obiettivo. In questo senso interventi che (come quello in discorso, per le ragioni che andremo a dire) possano interferire con la stabilità del sistema bancario (motore propulsivo dell’economia del Paese e depositario dei risparmi dei cittadini) o che possano determinare vantaggi per taluni soggetti e non per altri e quindi ingenerare situazioni di conflitto sociale, andrebbero valutati con grande attenzione.
Da ultimo, da un punto di vista logico, non vi è alcun collegamento tra, da un alto, il fatto che il corrispettivo pagato dagli investitori alle banche cedenti per i loro crediti deteriorati sia più o meno “conveniente” e, dall’altro lato, la circostanza che, per questo sol fatto, il debitore ceduto (che è soggetto terzo rispetto alla compravendita) abbia il diritto di vedersi abbonata una parte del proprio debito. È proprio da questa incoerenza di fondo che derivano poi una serie di leciti sospetti di incostituzionalità del provvedimento. Non essendo questa la sede per soffermarsi ad analizzare nel dettaglio le varie possibili censure rispetto al dettato costituzionale, basti solo pensare che il provvedimento sarebbe ingiustificatamente discriminatorio non solo rispetto a gruppi di debitori (ad es., tra, da un lato, coloro cui troverebbe applicazione la nuova disciplina, e, dall’altro lato, tutti gli altri, vale a dire, i debitori di crediti classificati come deteriorati al di fuori della finestra temporale indicata e di crediti che, pur rientrando “tempestivamente” nella classificazione, non sono stati oggetto di cessione) ma anche rispetto a gruppi di creditori (vale a dire le banche che siano titolari originarie di crediti e gli investitori che li avessero acquisiti a titolo derivato).
Sempre guardando agli aspetti giuridici, anche se questa volta di tipo per così dire più operativo, è facile immaginare che dall’attuazione di questa riforma possa derivare un incremento significativo del contenzioso tra debitori e creditori. Nella parte in cui la nuova disciplina prevede di intervenire su operazioni di cessione già effettuate, andrebbe ad inserirsi in situazioni già stabilizzatesi ingenerando significative complessità attuative e interpretative. Si pensi al caso di un credito oggetto di più cessioni oppure di un credito rispetto al quale ci sia già stato effettuato un saldo e stralcio per un importo diverso da quello previsto dalla nuova normativa o per il quale sia in corso un piano di rientro. L’incremento del carico giudiziario in un tale scenario porterebbe paradossalmente ad un allungamento dei tempi della giustizia e quindi all’acuirsi di uno dei driver principali (il c.d. judicial recovery timing) che rendono il pricing delle sofferenze italiane meno favorevole per i cedenti rispetto a quanto accade in altre giurisdizioni.
Rivolgendo poi nuovamente lo sguardo alle logiche sottostanti il provvedimento, sarebbe a mio modo di vedere opportuno sottoporre la nuova regolamentazione ad una sorta di “stress test” per valutare se, una volta calata nel concreto, essa sia idonea a dare luogo agli effetti ipotizzati ovvero se sussista il rischio di conseguenze indesiderate. Va da sé che pensare che la realtà si conformi al dettato normativo per il sol fatto della sua introduzione nell’ordinamento giuridico sarebbe a dir poco superficiale. La storia ci insegna che il comando giudico è uno dei fattori che influenzano i comportamenti umani e che, non di rado, l’effetto che di fatto si produce con un intervento normativo una volta calato nel concreto è l’esatto opposto di quello desirato. Anche qui, provo a spiegarmi meglio.
Se l’obiettivo del provvedimento è quello di far effettivamente usufruire i debitori ceduti di una sorta di condono, occorrerebbe porsi le seguenti domande: qual è la probabilità che debitori di crediti deteriorati e, ancor più, classificati a sofferenza dispongano effettivamente delle risorse finanziare per pagare il corrispettivo dell’esdebitazione? E, in mancanza, dove potrebbero reperirle?
C’è da immaginare, al riguardo, che il sistema bancario sarebbe quanto meno restio ad affidare nuovamente un soggetto che è risultato un cattivo pagatore in passato (non fosse altro perché le politiche di erogazione normalmente lo impediscono per obiettive ragioni di sana e prudente gestione). Sussisterebbe forse quindi il rischio che tale provvedimento alimenti il ricorso da parte dei debitori ceduti a canali illeciti di finanziamento che ricorrono molto spesso a pratiche usurarie e violente. Riterrei che questo sia l’esatto opposto di ciò che il legislatore intende perseguire con il provvedimento in parola. Molti debitori potrebbero pertanto trovarsi di fronte ad un bivio per cui l’esercizio del diritto richiederebbe il ricorso a risorse finanziare di dubbia provenienza o sarebbe di fatto precluso.
Sempre nell’ottica di un’analisi costi-benefici del provvedimento prima della sua adozione, il legislatore potrebbe poi voler valutare quali potrebbero esserne gli effetti sul sistema bancario, sempre tenendo a mente la tutela della pace sociale di cui si parlava in precedenza.
A mio parere, qui si pone un tema di una certa delicatezza dato che, per quanto mi sia dato sapere, sulla base delle loro prime reazioni, gli operatori sembrano percepire il rischio che il provvedimento introduca gravi elementi di incertezza e di rigidità nonché complessità operative che potrebbero disincentivare la realizzazione di ulteriori operazioni di cessione di NPL o renderle, nel migliore dei casi, più onerose (e quindi meno convenienti per le banche cedenti).
Quale sia il ruolo del mercato degli NPL nel ciclo del credito e nel processo di gestione dei coefficienti patrimoniali delle banche e di erogazione del credito alle famiglie e imprese e, più in generale, ai fini della stabilità del sistema bancario, dovrebbe essere noto alla platea specializzata di lettori a cui questo contributo è primariamente diretto per cui sarebbe inutile dilungarsi in questa sede. L’Italia, nel corso degli anni che vanno dalla crisi finanziaria ad oggi, ha sviluppato un ecosistema composto da banche originator, servicer e investitori per la metabolizzazione delle sofferenze bancarie tramite la creazione di un mercato trasparente ed efficiente, tra i più evoluti in Europa.
Dal mio punto di vista, il Governo dovrebbe guardare a questo mercato come a una “infrastruttura strategica” per il Paese, pronta ad assorbire masse rilevanti di crediti deteriorati che il sistema bancario abbia a produrre in occasione di futuri downturn economici. Mettere a repentaglio questa importante risorsa (che ci viene invidiata in altri paesi) alienandosi al contempo il supporto degli investitori (soprattutto quelli istituzionali) con l’impiego di leggi retroattive al fine di perseguire vantaggi tutto fuorché certi per un numero potenzialmente limitato di soggetti, potrebbe essere un prezzo salatissimo da fare pagare al sistema Italia.
In aggiunta, per un paese come il nostro ad elevato debito pubblico (che non può fare esclusivamente affidamento sul risparmio delle famiglie e sugli investimenti delle imprese – e principalmente quelle bancarie) non sembra saggio mettere a repentaglio la propria credibilità internazionale cambiando retroattivamente le regole del gioco.
Infine, sempre nell’ottica di una analisi preventiva degli effetti della riforma sul preesistente, ci si potrebbe chiedere se sia stato valutato il possibile impatto che la stessa potrebbe avere sulle operazioni GACS e il rating dei relativi titoli senior. Laddove la nuova disciplina trovasse un’ampia applicazione in pratica, quali sarebbero le conseguenze in termini di performance dei business plan di queste operazioni? Ricordiamo che questi business plan sono stati predisposti prevedendo, nella maggioranza dei casi, il perseguimento di una strategia di recupero giudiziale ad esito della quale i recuperi dovrebbero presumibilmente essere superiori ad un piccolo multiplo del prezzo di cessione. Se questo fosse corretto, non solo potrebbe concretizzarsi un serio rischio di escussione della garanzia statale (con ovvie implicazioni in tema di bilancio dello Stato) ma occorrerebbe anche chiedersi a quel punto se la normativa italiana complessivamente intesa non presenti profili problematici in ottica anti-trust. In altre parole, lo schema GACS è stato approvato in sede europea in quanto il delicato bilanciamento tra una serie di requisiti (costo della garanzia, rating dei titoli senior, ecc.) ne dovrebbe assicurare la natura di strumento di mercato, escludendone la configurazione come aiuto di stato. Laddove la riforma avesse a modificare questa impostazione, ingenerando ex post, un ammanco di cassa che verrebbe coperto dallo Stato mediante la garanzia, potrebbe forse sostenersi che per questa via lo Stato abbia di fatto finanziato direttamente, quanto meno in parte, la cessione dei crediti da parte delle banche e, nel fare ciò, abbia realizzato un aiuto di stato non consentito. Lascerei agli esperti di questa materia eventuali ulteriori valutazioni e approfondimenti su una tema caratterizzato da elevati livelli di tecnicismo.
Il richiamo alle GACS ci permette, a questo punto del discorso e avviandoci alle conclusioni, di affrontare quello che, a mio modo di vedere, costituisce il vero problema sociale connesso al mercato degli NPL. Se, infatti, le GACS hanno indubbiamente rappresentato uno strumento utile al rafforzamento degli indici patrimoniali delle banche italiane (e quindi del sistema finanziario del Paese in generale), appare altrettanto chiaro che il problema sociale connesso alla gestione di queste enormi masse di sofferenze risulta, in larga parte, irrisolto. Ricordiamo che, al momento, le operazioni GACS raccolgono masse di sofferenze per importi nominali di centinaia di miliardi di Euro e che coinvolgono una fetta importante della popolazione.
Nonostante gli enormi sforzi e investimenti effettuati dai servicer coinvolti in queste operazioni, sembrerebbe che la dimensione del fenomeno sia tale da risultare non completamente gestibile da un punto di vista operativo nell’attuale configurazione, con l’inevitabile conseguenza che non tutte le posizioni debitorie siano seguite con la necessaria continuità/prossimità. In un tale scenario, è facile immaginare che a un elevato numero di debitori risulti sostanzialmente preclusa la possibilità di definire la propria posizione e ripartire quale soggetto economico attivo e vitale. Oltre al disagio sociale conseguente a questa situazione di forzata inattività si aggiunge, da un punto di vista economico, il conseguente accumulo di potenzialità – anche contributive – inespresse, con grave danno per il sistema economico del Paese.
In quest’ottica senso sarebbe utile per il Paese e per la stessa industry dell’NPL che si aprisse un dialogo costruttivo tra gli operatori del settore (investitori, servicer e agenzie di rating), l’autorità di vigilanza e il governo per valutare possibili opzioni sul tavolo.
Tra le varie soluzioni si potrebbe pensare, ad esempio, ad un cambio di modello di recupero che sia incentrato sulla dismissione periodica sul mercato di pacchetti di crediti opportunamente clusterizzati. Ciò presupporrebbe un ripensamento dei business plan attualmente in essere per verificare se ed in che misura, grazie alla riduzione degli oneri finanziari connessi ad un abbreviamento dei tempi di incasso e ai risparmi derivanti dai minori premi della garanzia statale, nonostante la presumibile riduzione degli incassi totali, sia ipotizzabile il rimborso dei titoli senior e il pagamento del rendimento atteso dagli investitori subordinati (con esclusione, con tutta probabilità, del rimborso dei titoli mezzanini e junior). Al fine poi di venire concretamente incontro alle esigenze sociali di cui si faceva menzione, dovrebbe essere agevolata la cessione di questi pacchetti a soggetti che, in un’ottica ESG, si impegnino ad attuare, a certe condizioni, politiche di rimessa in bonis dei debitori ceduti tramite strumenti quali la cartolarizzazione con valenza sociale o le varie formule di reperforming conosciute dal mercato.
Una tale strategia potrebbe avere come effetto quello di ricostituire la necessaria prossimità tra gli investitori specializzati e i loro gestori, da un lato, e i debitori, dall’altro, permettendo a questi ultimi di uscire dallo stato di inattività in cui versano attualmente e di impiegare le risorse e capacità che il settore ha sviluppato in questi anni a vari livelli (operativo, regolamentare e di know-how) come volano ad una ripresa delle condizioni sociali ed economiche di una componente significativa del Paese. Avrebbe inoltre il vantaggio di costituire una soluzione di mercato che non sacrificherebbe il principio secondo cui “i debiti vanno onorati” promuovendo al contempo, e senza costrizioni, il raggiungimento di accordi tra le parti direttamente interessate circa i tempi, le condizioni e la misura degli abbattimenti del debito anche in un’ottica premiale.
In conclusione, sarebbe auspicabile che il disegno di legge, più che il punto di arrivo di una riflessione – a mio modo di vedere parziale – sui temi sociali connessi al mercato NPL, costituisse il punto di partenza di un dibattito – per certi versi, più realistico e, per altri versi, più ambizioso – tra i soggetti coinvolti in cui gli operatori del settore (al di là degli interessi delle singole categorie) siano in grado di offrire al legislatore, in sede di eventuali audizioni parlamentari o incontri con i ministri competenti, una visione di insieme del mercato NPL e della sua collocazione e del suo futuro nel più ampio sistema economico nazionale.