Gli operatori italiani di private equity vigilati sono “in difficoltà, a causa, da un lato, della complessità di raccolta sul mercato domestico che rappresenta un forte vincolo alla loro crescita e al loro sviluppo nel nostro Paese e, dall’altro, di un regime fiscale che li svantaggia. Infatti, la regolamentazione di Banca d’Italia, che di fatto assimila i nostri gestori alle banche, risulta particolarmente gravosa, specialmente per gli operatori di piccole dimensioni. Ciò fa sì che ci sia una minore propensione alla costituzione di operatori strutturati nel nostro Paese rispetto a quello che accade nel contesto internazionale”. Lo si legge nel comunicato stampa diffuso ieri da AIFI, l’Associazione Italiana per i Private Equity, Venture Capital e Private Debt, a valle dell’ultimo consiglio direttivo.
In particolare, ha sottolineato il presidente di AIFI, Innocenzo Cipolletta, “un elemento che differenzia il nostro modello rispetto al contesto internazionale riguarda l’ambito di vigilanza, che non tiene sufficientemente conto della proporzionalità, gravando con maggiori costi sugli intermediari di minori dimensioni. La maggior parte dei fondi nasce con piccole dotazioni di capitale e tale condizione andrebbe supportata per raggiungere successivamente una dimensione che sia competitiva sul mercato”.
E ancora, si legge nella nota di AIFI: “L’associazione da tempo richiede maggiore proporzionalità e regole non dissimili a quelle applicate nei paesi europei”.
Regole che evidentemente rendono più facile lavorare per i fondi, i quali in Italia sono peraltro molto attivi. AIFI rileva infatti che gli operatori internazionali hanno rappresentato oltre il 50% dell’attività d’investimento complessiva realizzata sul mercato italiano negli ultimi mesi. Su questo tema è interessante leggere il nuovo Quaderno AIFI sull’attività degli operatori di private equity domestici dal 2000 a oggi, dove si calcola che complessivamente tra il 2000 e il 2022 sono stati investiti circa 18,6 miliardi di euro, pari al 15% dei complessivi 127 miliardi del mercato del private equity. Tra il 2004 e il 2009 l’attività di questi operatori aveva rappresentato mediamente quasi il 30% dell’ammontare complessivo, ma con il passare del tempo tale percentuale si è ridotta, a fronte di investimenti sempre più consistenti realizzati da soggetti internazionali, che guardano con crescente interesse alle imprese italiane, anche di grandi dimensioni. Tra il 2010 e il 2019, infatti, la quota degli operatori domestici è stata in media pari al 17%, per poi ridursi ulteriormente negli ultimi tre anni, anche a fronte del maggior peso del comparto delle infrastrutture.
Non solo. Molto attivi sul lato investimenti di private equity sono anche gli operatori italiani non vigilati (club deal, family offices, holding) che secondo AIFI hanno realizzato il 36% del totale delle operazioni portate a termine dai soggetti domestici negli ultimi mesi.
Il dato è coerente con quello diffuso pochi giorni fa da BeBeez (si veda altro articolo di BeBeez). Infatti, secondo i numeri di BeBeez Private Data, il database del private capital di BeBeez, da inizio anno a oggi sono stati condotti 35 deal di questo tipo, contro i 22 di tutto il 2022 e i 23 di tutto il 2021. Contestualmente, in linea con il crescente interesse di imprenditori e dei loro family office a questo tipo di investimenti, si moltiplicano a loro volta i veicoli di investimento che organizzano le operazioni in club deal secondo le strutture più diverse. Ricordiamo che BeBeez aveva mappato lo scorso maggio ben 44 gli operatori che organizzano investimenti in club deal su pmi italiane, a cui si aggiungevano 7 search fund ancora in cerca di target su un totale di una quindicina lanciati negli ultimi due-tre anni (si veda qui l’Insight View di BeBeez, disponibile agli abbonati a BeBeez News Premium e BeBeez Private Data). Ben di più rispetto ai 26 veicoli e ai 13 search fund mappati da BeBeez poco meno di un anno prima nel giugno 2022 (si veda qui la precedente Insight View di BeBeez).
Sul fronte della difficoltà della raccolta per i fondi, i dati AIFI-PwC indicavano sì un aumento del 16% nel primo semestre dell’anno a poco meno di 2 miliardi di euro, ma evidenziavano anche che, considerando soltanto la raccolta indipendente sul mercato (escludendo quindi quella di emanazione pubblica e in particolare i capitali che arrivano da CDP), il dato sarebbe invece in calo del 32% a 1,07 miliardi. Interessante però notare che le fonti principali della raccolta sul mercato sono state: investitori individuali e family office, che hanno rappresentato ben il 24% del totale (si veda altro articolo di BeBeez). In occasione della presentazione dei dati semestrali, Anna Gervasoni, direttore generale di AIFI, aveva commentato: “Perlopiù in Italia gli investitori sono quelli individuali e i family office che ormai sono un quarto della raccolta. I fondi istituzionali sono sotto il 20% e le assicurazioni sono assenti. Speriamo che CDP venture continui a fare il suo mestiere di fondo di fondi perché è di grande aiuto per l’economia del paese”. Su questo punto comunque Luigi Tommasini, senior partner di Fondo Italiano d’Investimento sgr (FII sgr) e head of funds of funds, in un’intervista a BeBeez Magazine n. 14 del 21 ottobre aveva rassicurato: “Le risorse che abbiamo indirizzato ai mercati alternativi hanno consentito di superare periodi di difficoltà di raccolta ed è ipotizzabile che le risorse da noi gestite avranno un ruolo importante nel superare anche questo nuovo gap di raccolta, in particolare in un momento in cui le imprese hanno ancora più bisogno di capitali per crescere”.