Mario Martone porta in scena Romeo e Giulietta facendone un dramma contemporaneo con attori giovanissimi, un’inedita traduzione e una scenografia strepitosa; il testo di Juan Carlos Rubio diretto da Alessio Pizzech ci racconta una misteriosa relazione al maschile e il Gruppo della Creta ipotizza altri scenari di guerra in un futuro non poi tanto lontano.

E’ forse una delle tragedie di Shakespeare più difficili da trasferire ai nostri giorni: Romeo e Giulietta ci parla di un amore impossibile che finisce nel sangue a causa della faida tra due famiglie rivali. Cosa assai plausibile se pensiamo al 1595 quando fu scritta, un po’ meno oggigiorno, a differenza di tematiche come la gelosia (Otello) o la sete di potere (Macbeth e Riccardo III) che non hanno età o collocazione né sociale o geografica. Ne fanno fede le pochissime messe in scena allestite dal nostro teatro: ricordiamo quella di Franco Zeffirelli del 1965 con Annamaria Guarnieri e Giancarlo Giannini e un’altra di Valerio Binasco del 2013 con Riccardo Scamarcio e Deniz Ozdogan. A integrarla in un contesto moderno ci è riuscito in passato il cinema con West Side Story che, diretto prima nel 1961 da Jerome Robbins e Robert Wise e poi nel 2021 da Steven Spielberg, ambienta la storia negli anni cinquanta con la rivalità tra una banda d’immigrati portoricani e l’altra d’immigrati europei di seconda generazione. Alla notizia che Mario Martone, uno dei nostri più versatili e apprezzati registi, diviso sempre con successo tra cinema e teatro, avesse scelto questo testo, ci siamo subito chiesti per quale chiave di lettura avrebbe optato e se sarebbe riuscito a coinvolgere anche emotivamente il pubblico di

oggi. La ritenevamo una scommessa difficile ma, dopo aver visto il suo spettacolo, possiamo dire che è stata vinta e che i secoli non sono affatto pesati sulla forza delle passioni e le logiche di sopraffazione.
“Ho immaginato di mettere in scena Romeo e Giulietta perché mi sembra che il testo contenga due temi che nel nostro tempo risuonano fortemente e che non sono solo attuali ma eterni: la violenza sorda e spesso priva di ragioni, verbale quando non fisica, che agita la nostra società e l’inquietudine di una fascia sociale, gli adolescenti, che si è in qualche modo scollata dal mondo adulto da cui proviene.”
Decisione importante e alla lunga felice è stata quella di commissionare una nuova traduzione a Chiara Lagani, fondatrice e regista della compagnia Fanny & Alexander, che si era già cimentata con i funambolismi linguistici dell’Alice nel paese delle meraviglie di Lewis Carroll.

Lagani ha non solo radicalmente aggiornato il vocabolario del Bardo ma, in piena sintonia con l’adattamento operato da Martone, ha inserito veri e propri anacronismi, ad esempio nei duelli le arti marziali sostituiscono le spade e l’esilio a cui il Principe (personaggio che viene eliminato) diventa un daspo.
“Con l’esclusione del Principe – continua Martone – ho voluto cancellare il principio di autorità che si trova nell’originale e di cui lui è portatore: voglio che se ne avverta l’assenza. La società violenta e dispersiva in cui viviamo è certamente conseguenza anche di una progressiva perdita di autorevolezza e credibilità politica. Nel mio spettacolo non c’è nessuno che mette ordine tra le fazioni, si allude a luna legge lontana ma della quale non si vedono mai gli esponenti se non nella scena finale.”
Di violenza è intessuta la storia: non sappiamo la ragione dell’odio tra i due nuclei familiari: pare che Shakespeare si sia ispirato alle vicende dei Montecchi, ghibellini di Verona, e i Cappelletti (diventati poi Capuleti) guelfi di Cremona, citati da Dante nel sesto canto del Purgatorio. Dei Capuleti abbiamo un’immagine festaiola, impegnati come sono a organizzare banchetti con eccessi di cibo e alcol, molto meno sappiamo invece dei più austeri Montecchi di cui non oltrepassiamo mai l’uscio di casa. Lo stesso odio che intuiamo tra le due coppie di genitori lo respiriamo sin dalle prime battute negli scontri tra Benvolio e Mercuzio del clan Montecchi e Tebaldo, appartenente a quello dei Capuleti. I due schieramenti sono supportati dalle rispettive gang che rimandano alle attuali guerriglie urbane in cui tanti giovani rimangono coinvolti: la lingua che parlano è la nostra, senza esclusione di frasi pesanti, volgarità e imprecazioni. Del tutto diversa è quella con cui si esprimono Giulietta e Romeo: decisamente poetica, piena d’incanto e quasi musicale con continui riferimenti alla natura come nella famosa scena del balcone. Dei due è

sempre la volitiva Giulietta a prendere l’iniziativa e una volta scoccato il colpo di fulmine, niente e nessuno sembra poterla fermare. Romeo ci appare all’inizio in preda a profonda tristezza per l’amore non corrisposto di Rosalina, malinconia presto abbandonata appena incontra alla festa il nuovo oggetto del desiderio. Troppo impulsivo nel carattere, cede alle dinamiche del sangue che chiama sangue e, volendo vendicare la morte del fraterno amico Mercuzio, uccide Tebaldo, delitto che apre la spirale delle successive sciagure. Tra i personaggi minori spicca quello che nel testo era la balia, trasformata dal regista in Angelica, sorella di Donna Capuleti e zia di Giulietta: una vedova che si concede i favori di un giovane amante, dispensatrice di pareri e consigli assai spregiudicati ma comunque fedele alla nipote e disposta a condividerne i piani.
Un punto di forza dello spettacolo è sicuramente la scenografia, anzi l’installazione, un capolavoro realizzato da Margherita Palli, abituata alle sfide impossibili richiestele in tanti anni da Luca Ronconi. L’intero palcoscenico viene infatti invaso nella parte superiore da un lussureggiante giardino/foresta in cui spiccano due enormi tronchi fronzuti da cui si diramano passerelle e camminamenti sui quali si muovono gli attori mentre la parte sottostante raffigura una discarica/palude con carcasse di auto abbandonate, bidoni ed enormi pneumatici. Sopra la natura che evoca uno spaesamento, un ideale di armonia e equilibrio, sotto una realtà degradata e selvaggia.
Mario Martone orchestra al meglio un cast di 30 attori, puntando sulla fisicità e sull’aggressività non solo verbale, movimentando l’azione facendoli più volte scendere in platea e abolendo la distinzione tra servitori e padroni in nome di una confidenziale e giustificabile amicizia tra coetanei. Data una simile scelta registica i protagonisti non potevano che essere inevitabilmente giovanissimi: Anita Serafini (Giulietta) ha 15 anni, irruente e passionale, a tratti ancora un po’ acerba, e Francesco Gheghi (Romeo) ne ha 19, persuasivo sia nel registro della malinconia che in quello degli slanci amorosi. Nel Mercuzio di Alessandro Bay Rossi troviamo benissimo espresse le caratteristiche del personaggio: ingegno, humor e il taciuto sentimento omoerotico nei confronti di Romeo. Licia Lanera presta a Angelica una schietta vena popolare non priva di pragmatica saggezza. Michele Di Mauro è un Capuleti gaudente e crudele, talvolta sopra le righe, mentre la Donna Capuleti di Lucrezia Guidone è sobria e spietata, i rivali Montecchi sono Benedetto Sicca, asciutto e rigoroso padre-padrone e Alice Torriani madre remissiva. Frate Lorenzo, il prete-alchimista fornitore di veleni letali, generoso nei confronti della coppia ma anche pavido nel non confessare a posteriori il matrimonio che aveva celebrato, è l’istrionico Gabriele Benedetti al volante di un’auto elettrica, ma tanti altri meriterebbero una citazione. I costumi di Giada Masi sono quelli del nostro presente, Pasquale Mari firma le suggestive luci e Hubert Westkemper il suono che ai rumori della natura mescola musiche techno e ardite incursioni con Albano e Cochi & Renato.
Romeo e Giulietta, prodotto dal Piccolo Teatro di Milano, è in scena, festeggiato ogni sera anche da un pubblico giovanissimo, alla sala Strehler sino al 6 aprile.

Come potrebbe reagire un figlio, quando riordinando le carte del padre appena mancato, scopre che l’uomo, integerrimo avvocato eterosessuale, riceveva appassionate lettere d’amore da un altro uomo? Ce lo racconta Juan Carlos Rubio, drammaturgo, regista e sceneggiatore spagnolo in Le ferite del vento, un bel testo che approfondisce con sensibilità e ricchezza di sfumature un incontro/scontro tra un giovanotto e un maturo omosessuale, destinato a segnare una tappa significativa nelle loro vite, ma anche a mettere in discussione le etichette di padre, figlio e amante. Passato il primo, comprensibile sbigottimento, Davide, il figlio, decide di andare a conoscere il misterioso autore delle missive e approda così all’appartamento di Giovanni, un anziano single rimasto solo dopo la morte della sorella che per compagnia ha solo quella di un gatto dispettoso. A causa dei toni aspri e inquisitori del primo, l’impatto tra loro si rivela disastroso: andrà meglio nei successivi due appuntamenti in cui il giovane si addolcisce e comincia a rispettare la persona e le scelte sessuali dell’altro che all’aggressività risponde con ironia e pacatezza. Tra loro aleggia la figura di Raffaele, pirandellianamente vissuto da un lato

come padre e dall’altro come amante. Le tensioni si sciolgono e pian piano Davide mette a parte Giovanni delle sue fragilità e difficolta nella sfera affettiva con l’altro sesso, ricevendo saggi consigli su come gestire al meglio la relazione con la fidanzata. Nell’ultimo loro incontro avviene il colpo di scena con la rivelazione della vera natura dell’amore tra Giovanni e Raffaele. A mettere in scena la pièce che si replica da due stagioni è il regista Alessio Pizzech che si divide con ottimi esiti tra prosa e opera lirica. “Il testo di Rubio ci dice che abbiamo la necessità, prima di amare un altro essere umano, di amare noi stessi e di riconciliarci con l’eredità dei nostri padri/madri anche non volendola o non cercandola. Nella società che verrà dopo di noi maschile e femminile dovranno rigenerarsi in valori che mettano sempre al centro l’uomo e la straordinaria possibilità dell’ascolto. Ci sono ferite che non vediamo dentro di noi ma che costantemente attraversano il vento e il respiro dell’amata/o: ne sentiamo il suono e ne abbiamo paura, invece non dovremmo mai aver timore di farci attraversare dall’amore. Amo questa pièce perché attraverso il tema dell’omosessualità chiede agli interpreti e a me di percepire la dimensione adulta anche nella solitudine. Il finale rimane aperto: non voglio prendere una posizione ma intendo raccontare che l’amore è una cosa complessa, sia quello tra padri e figli o quello tra due uomini o tra due donne.” Per il ruolo di Giovanni, Pizzech ha scelto Cochi Ponzoni che al suo personaggio ha saputo offrire leggerezza, ironico distacco e giusta dose di malinconia. Davide è Matteo Taranto che con la sua intrigante fisicità e impulsività disegna assai bene i turbamenti e i bisogni di un figlio mai compreso appieno. Le ferite del vento rimane alla Sala Umberto di Roma sino al 19 marzo, poi al teatro Sociale di Brescia (22-26/3) e Sperimentale di Pesaro (20-23 aprile).

Un futuro troppo presente e la guerra, affrontata in modo originale, sono le tematiche di Ucronia. O va tutto bene e Soldato, due dei cinque tasselli del progetto La regola dei giochi, ideato dal Gruppo della Creta, scritti da Anton Giulio Calenda e diretti da Alessandro Di Murro. Composti quattro anni fa, ben prima dell’inizio del conflitto russo-ucraino il 24 febbraio 2022, quando ritenevamo che l’Occidente fosse immune dal virus della guerra, questi testi pongono l’enfasi sui crudeli principi che regolano i rapporti umani. Che si svolga in una landa desolata o su Internet, secondo il Gruppo della Creta è proprio il conflitto ciò che regola il Grande Gioco del mondo contemporaneo. In Ucronia una giovane donna dal suo Google Nido ci racconta che quella tra Cina e Stati Uniti sarà la sfida di maggior rilievo di questo secolo e descrive il mondo all’indomani della terza guerra mondiale, vinta naturalmente dall’America. Veniamo a conoscenza di un nuovo sistema globale in cui l’Italia meridionale appartiene alla Turchia, i poli si sono sciolti e l’inflazione è stata sconfitta. A sorvegliare la protagonista c’è il Grande Amico, una figura onnipresente che accompagna con ironia e sadismo la descrizione

geopolitica resa dalla sua padrona. Soldato vede per protagonisti due commilitoni ai quali il destino non sembra riservare altro che la pena peggiore possibile tra quelle offerte a chi si trova costretto a vivere come minuscola rotella del vasto ingranaggio chiamato Arte della Guerra: marciare all’infinito senza sapere nulla sul conto dl nemico né sul proprio. Da questa totale mancanza d’informazioni nasce il fitto dialogo tra il sergente e il soldato semplice: il primo, avvezzo alle durezze della guerra, e il secondo ancora alla ricerca di un senso che possa giustificare l’asprezza di ciò che lo circonda.
Con le illustrazioni di Laura Canali e la partecipazione in video di Giuseppe De Ruvo, in scena troviamo Matteo Baronchelli, Alessandro De Feo, Amedeo Monda e Laura Pannia. Dopo il successo al teatro Basilica di Roma La regola dei giochi va in scena al teatro Franco Parenti di Milano dal 21 al 26/3 e alla Sala Bartoli del Teatro Stabile del Friuli Venezia Giulia di Trieste il 26 e 27/3.
a cura di Mario Cervio Gualersi