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Pascal Rambert si focalizza su quelli di una compagnia teatrale e Valerio Binasco su quelli di una famiglia disfunzionale. I suoi testi sono tradotti in 35 lingue e opera in oltre 30 Paesi tra cui Perù e Giappone, riuscendo in questi giorni a seguire di notte e da remoto le prove di una sua pièce in Uruguay: di sé il drammaturgo e regista Pascal Rambert ama dire semplicemente: “Non so fare altro che scrivere e mettere in scena. Lavoro per entrare nel corpo degli attori attraverso le lingue che parlano”. Nato a Nizza, 61 anni, rimase folgorato vedendo nel 1982 nella sua città l’Arlecchino diretto da Giorgio Strehler che poi incontrò di persona e fu determinante per fargli comprendere che la sua strada sarebbe stata nel teatro. Non era il suo primo incontro con il personaggio, una sorta di fool scespiriano pronto a sgranare verità spesso sgradevoli: a soli 17 anni aveva diretto Arlequin poli par l’amour di Marivaux.
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La maschera della Commedia dell’Arte creata da Goldoni appare inaspettatamente anche in Durante, seconda parte della Trilogia iniziata lo scorso anno con Prima e che si concluderà nel prossimo con Dopo. “E’ un trittico”, puntualizza Rambert, “che parla di una compagnia impegnata nella realizzazione di uno spettacolo, delle gioie e dei dolori di una produzione, di ansie di artisti che ignorano quel che li aspetta: nella nostra professione non si sa cosa accadrà, se lo spettacolo piacerà al pubblico, se avrà successo o no. E’ un mestiere estremamente bizzarro, che si appoggia su regole che non esistono e che occorre riscrivere ogni volta se davvero si ama il proprio lavoro. La pièce fa luce sulle angosce di attori e attrici che si confrontano con un vuoto da riempire ogni volta: il mio compito è aiutarli a colmarlo per poi mettere il tutto in sicurezza. Mi premeva parlare delle conseguenze delle nostre azioni e dei nostri sentimenti, del modo in cui influiamo sugli altri: l’arte del teatro non è nient’altro che questo e se è vero che il teatro influenza la vita, è altrettanto vero che il modo in cui un attore dà vita al personaggio che gli viene assegnato è parte di quella grande battaglia, estetica e sentimentale, che si svolge sulle tavole del palcoscenico”.
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In Prima abbiamo conosciuto Anna, matura attrice che sì è invaghita del più giovane attore Marco, il quale è legato da tre anni a una collega, che si chiama Anna come l’altra, con cui però è in crisi tanto da rivolgere le sue attenzioni a Leda che non gli è certo indifferente. A completare questa compagnia, impegnata nelle prove di un lavoro ispirato alla Battaglia di San Romano, il trittico del pittore rinascimentale Paolo Uccello, di cui una tavola è conservata agli Uffizi, mentre le altre due sono esposte alla National Gallery di Londra e al Louvre di Parigi, c’è l’attempato regista Sandro, gay e anch’egli da sempre innamorato di Marco. Li avevamo lasciati nel turbinio dei loro sentimenti e passioni (un mix di amore, amicizia, gelosia e rivalità) con squarci sul loro passato.
In Durante l’azione dall’interno del teatro si sposta in parte all’esterno e l’incipit è assai drammatico: vediamo infatti i rottami di una fuoriserie dopo un pauroso incidente da cui escono sanguinanti gli attori e il regista, mentre sullo sfondo si staglia un video psichedelico e la voce di Gianni Morandi irrompe con In ginocchio da te. Da qui si snodano una serie di flashback che ci riportano ai loro primi incontri ma anche degli “a parte” sul loro privato, considerazioni e bilanci sulla professione e sul rapporto con il teatro. Anna, ad esempio, parla della sua lunga carriera che le ha regalato successi e momenti d’insofferenza per ruoli non graditi, la paura (o desiderio?) di morire sulla scena, la rigida educazione ricevuta in collegio, il periodo in cui a 50 anni perse completamente la voce, oltre al dolore che non si cancella per aver fatto la scelta di abortire. Sandro rievoca la tumultuosa relazione di anni prima con un ragazzo bisessuale e votato solo al sesso che poi lo ha lasciato, portandolo alla disperazione sino a tagliarsi le vene. Molto sofferta è stata la presa di coscienza della sua omosessualità: da ragazzo si sentiva diverso da tutti i compagni e, come spesso capita, unico, addirittura “sporco” (erano gli anni sessanta); poi il cinema e le letture (la Medea di Pasolini e i suoi romanzi, Malaparte e Levi) lo hanno traghettato verso l’accettazione e pacificazione con la sua condizione e a non farne più mistero. La vita di Marco è stata squassata dall’amore (ma anche dal pudore tipicamente maschile a esprimere il desiderio sessuale) e l’infelicità che gli ha causato lo ha spinto a bere smodatamente e a correre in auto a forte velocità a rischio della vita. L’Anna più giovane all’amore ha dedicato l’intera esistenza e la vediamo tornare alla prima uscita insieme a Marco. Leda a sua volta ci mette a parte della sua discrezione scambiata per timidezza, il sentirsi spesso inadeguata tra i colleghi e gli amici e il non riuscire a manifestare i sentimenti, cosa che sta accadendo anche con Marco.
Nella struttura della pièce non semplice da seguire e raccontare, un’altra sfaccettatura è il rapporto dei personaggi con il Piccolo e con Strehler e qui come si può immaginare la finzione si confonde con la realtà e con il vissuto degli attori e quello di Rambert: da Marco che ha lavorato con Ferruccio Soleri, interprete di Arlecchino per decenni, ed è proprio trasformato nella maschera (ma con il variopinto costume macchiato di sangue) che riappare in scena. E’ un Arlecchino dimenticato in angolo del palcoscenico della storica Sala Grassi, sotto la quale in tempo di guerra i nazifascisti torturavano dissidenti e partigiani. Nel suo stile crudo non risparmia riferimenti al presente, rivolti a chi immeritamente ha conquistato il potere e ai tanti immigrati morti nei nostri mari dopo terribili viaggi della speranza. C’è anche il fondatore del Piccolo, nel suo dolcevita nero che osserva pensieroso in silenzio. Sandro ricorda quando con la mamma a 10 anni entrò per la prima volta in quel teatro, infine Leda parla degli anni trascorsi alla Scuola allora diretta da Luca Ronconi.
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A sorpresa poi ogni personaggio si accompagna a un suo doppio più giovane, talvolta addirittura bambino/a. All’improvviso una giovane attrice impugna il microfono e si cimenta in Maledetta primavera, il tormentone di Loretta Goggi, popolare anche in Francia. “Ho un amore totalizzante per la canzone italiana”, chiosa Rambert, “una passione irrazionale: il giorno in cui dovessi morire vorrei che il mio funerale fosse una specie di Festival di Sanremo. Ricorro spesso alle canzoni perché racconto storie dolorose in cui si parla di separazioni e di perdite e la musica leggera mi aiuta a trovare un bilanciamento”.
Pur se meno compatto di Prima, il testo di Durante conserva grande fascino: la stessa lingua ondivaga, ricercata, lirica ma anche ricca di espressioni idiomatiche, è un vero nutrimento per gli attori. La regia di Rambert si affida al carisma degli attori e, nonostante l’intersecarsi di sogno e realtà (sino alla fine non sappiamo infatti se i personaggi sono tutti morti nell’incidente oppure ne sono scampati, dopo aver deciso di concedersi una pausa dalle prove affidandosi alla guida di Marco che aveva noleggiato la fuoriserie) conduce il gioco con mano fermissima. Come nella prima parte i personaggi hanno lo stesso nome degli attori: Anna Bonaiuto, ora dolente ora feroce con se stessa e con gli altri; Sandro Lombardi, struggente cantore dei tormenti della terza età, quando il desiderio è ancora vivo e l’attrazione per la bellezza dei giovani morde il cuore; Anna Della Rosa, sincera e diretta anche quando sa di ferire; Marco Foschi, irruente e spavaldo ma anche fragile; Leda Kreider, schiva e umbratile, tutti/e davvero al loro meglio. Menzione per Miruna Cuc, Cecilia Fabris, Pasquale Montemurro, Caterina Sanvi e Pietro Savoi, allievi/e della Scuola del Piccolo. Scene, con i rottami delll’auto che vanno poi a comporre altri elementi, firmate dallo stesso regista con Anais Romand, suoi anche i funzionali costumi, mentre le musiche sospese e inquietanti sono di Alexandre Meyer e le luci di Yves Godin. Prodotto dal Piccolo Teatro e Compagnia Lombardi-Tiezzi, Durante rimane in scena alla Sala Grassi sino al 5 maggio.
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Romanziere, poeta e drammaturgo, Premio Nobel per la Letteratura lo scorso anno, il norvegese Jon Fosse (classe 1959) si è fatto conoscere in patria nel 1983 col romanzo d’esordio Rosso, nero, nel ’96 è diventato popolare anche nel resto d’Europa per la messa in scena di Qualcuno arriverà al Festival d’Automne e Thomas Ostermeier, firmando la regia di Il nome alla Schaubuhne di Berlino nel 2000, ne ha consolidato la fama.
Il merito di averlo portato, anche fisicamente, in Italia va riconosciuto a Barbara Nativi e al suo Festival Intercity alla Limonaia di Sesto Fiorentino: nel 2001 la regista diresse sia Sogno d’autunno che Il nome e nel 2009 in prima assoluta italiana Io sono il vento. “Sono uno scrittore fortemente critico sulla lingua”, dice Fosse, “intendo dire che le cose più importanti non possono essere dette (né in un dialogo espresso con il linguaggio quotidiano né con quello concettuale) e proprio in questo consiste la mia poetica: dire l’indicibile. Un buon dramma deve rivelare in qualche modo una sensibilità, una musicalità, un pensiero mai visti prima”. Mentre i suoi romanzi hanno spesso dimensioni quasi ciclopiche, il suo teatro è fatto di testi generalmente brevi, i dialoghi sono laconici, talvolta interrotti o lasciati in sospeso, calati in una dimensione metafisica con echi beckettiani e pinteriani ma anche del compatriota Ibsen.
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Chi ha manifestato un grande interesse per la produzione teatrale di Fosse è il regista Valerio Binasco che ha messo in scena dal 2007 ben cinque sue pièce: Qualcuno arriverà, E la notte canta, Un giorno d’estate, Sonno e in questa stagione La ragazza sul divano. “Amo la percezione fuori fuoco”, afferma Binasco, “della realtà che trovo nei testi di Fosse. Ogni volta ho la sensazione di trovarmi dinnanzi a un grande affresco sull’umanità, ne percepisco fortemente il senso ma non riesco a metterlo a fuoco. Fosse è un autore che istiga in modo irresistibile il mio bisogno di fare teatro con delicatezza, da ritrattista, un teatro innamorato dei volti delle persone, dei loro occhi, del loro silenzioso e spesso inutile fluire attraverso la vita. Il mio approccio con lui non è quello di lasciarmi abbagliare dalle sue caratteristiche più evidenti che sono stilistiche, poetiche, per certi aspetti astratte, ma il suo astratto non è irreale. Dietro le parole c’è la realtà della vita degli uomini, delle persone comuni e semplici che nella vita non hanno altro da fare che arrabattarsi per viverla con i sentimenti di tutti noi: amori, disamori, depressioni, incertezze, noia esistenziale, confusioni mentali”.
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Alcuni di questi sentimenti sono presenti anche in La ragazza sul divano, scritta nel 2002, ma il tema predominante è l’abbandono. I personaggi non hanno nomi ma si chiamano Uomo, Donna, Ragazza, Sorella, Zio, Padre e Madre. Nella pièce ci sono due distinti spazi temporali, uno è quello del presente e l’altro riguarda il passato.
L’incipit vede la crisi professionale e esistenziale che attanaglia la Donna: è una pittrice intenta a dipingere un quadro con una ragazza seduta su di un sofà. Confessa tra collera e dispiacere di essere certa di non avere alcun talento (“Non ho mai dipinto un bel quadro in tutta la mia vita”) e di aver fallito anche nella sfera personale: è incapace di vivere con qualcun altro ma anche di stare da sola, infatti ha lasciato un marito (l’Uomo) che l’amava e che pur essendosi rifatta una vita con una nuova compagna, non le fa mancare la sua amicizia. Comprendiamo presto che il soggetto che sta ritraendo è lei stessa da giovanissima (la Ragazza infatti ama disegnare e lo considera un passatempo per sconfiggere la noia) e l’azione si sposta all’istante nel passato. La Ragazza pare indifferente a quanto le accade intorno: non riesce a decidere se uscire e svagarsi, finendo con l’assumere un comportamento ai limiti dell’autismo. Ha inoltre un rapporto bivalente con la Sorella, per un verso giudicata malissimo per la sua libertà sessuale, gli abiti discinti da prostituta e il disprezzo per la Madre, ma dall’altro invidiata proprio per quell’indipendenza e l’atteggiamento spregiudicato che tanto piace agli uomini. Entrambe sono assetate dell’amore che non hanno dai genitori ma anche il loro sentimento nei riguardi del Padre, un marinaio sempre assente da casa data la professione, misterioso e avaro di notizie che possano tenere comunque saldi i legami con la famiglia, è diverso: la Ragazza ne sente la mancanza, ne parla spesso quasi mitizzandolo e aspetta trepidante le sue scarne cartoline dal mondo, la Sorella invece semplicemente lo ha cancellato dalla sua vita. La loro Madre ha cercato gratificazioni in altri uomini e ora ha intessuto una relazione con il cognato (lo Zio), mal sopportata dalla Ragazza che considera il loro legame un tradimento di entrambi nei confronti del Padre.
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La situazione precipita quando quest’ultimo torna senza preavviso e in casa coglie i due amanti mentre hanno un rapporto sessuale: non dice una parola, esce e scomparirà per sempre. La Madre, spinta dal cognato, deve decidere se privilegiare la sua presunta felicità o il bene delle figlie e, senza molte esitazioni, decide di abbandonarle e fuggirsene via. Ritorniamo nel presente e veniamo a sapere che ora sta per morire ma che la Donna, non avendola mai perdonata, si rifiuta di darle anche un estremo saluto. Nel finale la pittrice rimane ancora una volta sola e si nasconde dietro una delle sue enormi tele coperta da un panno. “La Donna”, aggiunge il regista, “ha un rapporto passionale con il proprio mestiere: ha ingaggiato una lotta violenta con la crisi della creatività e ne sta scoprendo le cause: sono quelle che inducono talvolta gli artisti a lasciarsi andare a una vita di autodistruzione, di malinconia, di odio per la propria creatività perché la propria arte affonda l’origine in una ferita affettiva. Il Padre è un uomo qualunque, ha tradito tutti ed è scappato con il mare, buttando le tre donne nella più totale e desolante malattia psichica: persona rifiutate, ammalate di autodisprezzo”.
La regia di Valerio Binasco si affida più a una dimensione antinaturalistica e immerge i personaggi in uno spazio mentale in cui ciascuno di loro sembra fluttuare lasciandosi andare alla deriva. Per sé ha riservato il ruolo dell’Uomo, incisivo, riflessivo ed empatico; lo affiancano Isabella Ferrari, Madre irrisolta e incapace d’amare, in una delle prove più mature della sua carriera, il sempre eccellente Michele Di Mauro, Zio vile ed egoista, Pamela Villoresi, Donna senza timore di mettere a nudo contraddizioni e mancanze, in un ritratto di sicuro impatto anche se con qualche eccesso nei toni, Giordana Faggiano, Ragazza tenera e sperduta, Giulia Chiaromonte, Sorella volitiva e arrogante che cela fragilità, e Fabrizio Contri, Padre assente. La bella scena a due livelli con soggiorno e camera da letto è di Nicolas Bovey, i costumi adatti al meteo di un Paese del nord portano la firma di Alessio Rosati, i video e la pittura (che avanza nella creazione e poi si cancella) sono di Simone Rosset e il suono di Filippo Conti.
Prodotto dal Teatro Stabile di Torino e dal Teatro Biondo di Palermo, La ragazza sul divano, dopo il debutto in marzo al Carignano di Torino, è stato allo Strehler di Milano dove l’abbiamo visto, resta in scena al Vascello di Roma sino al 21 aprile e conclude la tournée al Biondo (dal 26/4 al 5 maggio) e al Mercadante di Napoli (dal 7 al 12/5).
a cura di Mario Cervio Gualersi