In Italia si fa poca ricerca nel settore life sciences ed healthcare perchè mancano soldi e strutture davvero focalizzate in grado di attirare e valorizzare i talenti e i soldi mancano perché la stragrande maggioranza dei ricercatori italiani non sono in grado di attrarre gli investitori. E’ un circolo vizioso che per fortuna qualcuno è stato in grado di rompere, perché di storie di successo ce ne sono, ma sono ancora davvero poche.
Di questo e di quello che si dovrebbe e potrebbe fare per innescare un volano virtuoso si è parlato lo scorso martedì 5 marzo al BeBeez Networking Cocktail, nel corso della tavola rotonda Investimenti nell’healthcare: trend di ricerca e attese del mercato, moderata da Stefania Peveraro, direttore di BeBeez.
Il cocktail è stato offerto da Utopia SiS, società di investimento specializzata in healthcare e biomedicale, promossa e partecipata dalla Fondazione Golinelli e dalla Fondazione di Sardegna, oltre che dal vicepresidente esecutivo Antonio Falcone, che aprendo i lavori ha ricordato che la società è stata battezzata Utopia proprio per dimostrare che anche in Italia si può vincere la sfida e investire in questo settore in progetti early stage di qualità. Peraltro, ha ricordato Falcone, “Utopia è tuttora l’unico operatore in Italia che gode della garanzia del Mediocredito Centrale su investimenti in equity. Il che non ci pone alcun vincolo sugli investimenti che decidiamo di fare, visto il nostro focus, e ci offre invece un grande valore aggiunto perché ci permette di affrontare il rischio come forse pochi o possono fare”. Ricordiamo, infatti, che tutte le ultime operazioni condotte da Utopia SiS godono appunto della MCC sull’80% dell’importo investito. Lo statuto di MCC prevede la garanzia su investimenti in equity a certe condizioni, solo che nessuno prima di Utopia Sis le aveva mai richieste.
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“In questo settore c’è un problema iniziale nella catena di creazione di valore. Non creiamo valore con la proprietà intellettuale”. E’ la diagnosi impietosa di Sergio Abrignani, direttore scientifico dell’ Istituto Nazionale Genetica Molecolare (INGM), professore ordinario di Patologia Generale nel Dipartimento di Scienze Cliniche e di Comunità presso l’Università degli Studi di Milano, board member di Utopia Sis e fondatore di varie startup, che ha snocciolato una serie di numeri che parlano da soli.
In primo luogo, ha detto Abrignani, c’è una falla nella curva di derisking, perché “manca chi finanzia il trasferimento tecnologico, che crea valore, nella fase iniziale, permettendo il passaggio da ricerca a sviluppo preclinico. In questa fase in Italia abbiamo una carenza dovuta al fatto che manca la filantropia, che invece negli Stati Uniti pesa per ben il 2% del PIL, in Regno Unito per lo 0,8% e in Francia per lo 0,5%. La filantropia è fondamentale per supportare i progetti nelle fasi iniziali, perché si tratta di rischi che nessuno si può assumere se non in modo filantropico”. C’è poi il fatto che “in Italia ci sono pochi studenti in materie STEM e ancora meno dottorandi”, così alla fine “abbiamo 161 mila ricercatori contro per esempio i 321 mila della Francia“. Detto questo, “i nostri ricercatori hanno un indice bibliometrico molto elevato, pubblicano tanto e bene e infatti contiamo circa 100 mila pubblicazioni all’anno contro le 110 mila dei ricercatori francesi”. Il problema, però, è che questa ricerca nella stragrande maggioranza del casi non attrae capitali. “Se consideriamo che lo scorso anno il venture capital in Italia ha investito circa un miliardo di euro contro i 7,3 miliardi della Francia, allora è chiaro che c’è qualcosa che non va. Stiamo parlando di soltanto 6 mila euro di capitali attratti da ciascun ricercatore italiano, contro i 23 mila attratti pro-capite dai ricercatori francesi. Se i nostri ricercatori avessero la stessa capacità di attrarre capitali dei ricercatori francesi, allora gli investimenti di venture capital sarebbero stati 3,7 miliardi invece che un miliardo”. E questo concetto vale a maggior ragione per le life sciences, ha aggiunto Abrigani, “se si pensa che del totale di 100 mila pubblicazioni, ben 57 mila riguardano questo settore, ma che gli investimenti di venture capital sono stati soltanto 146 milioni sul totale di un miliardo”. Non solo.
C’è un’altra anomalia italiana: “Circa la metà degli investimenti di venture capital sono condotti da investitori pubblici in Italia, contro una media del 30% negli altri paesi europei. Meno male che il pubblico investe, ma non è normale”, ha detto ancora il professore, sottolineando ancora una volta che evidentemente i capitali privati non trovano sufficientemente interessanti molti dei progetti dei ricercatori italiani. Ma il tema, ancora una volta, non risiede nella bontà dei progetti, ma nella capacità di trasformare quei progetti in business e qui si torna alla necessità di attori che permettano il reale trasferimento tecnologico, perché “l’accademia, che genera tantissimo lavoro scientifico, manca della capacità di generare storie di successo. Se consideriamo tutte le università pubbliche e private, tutti i grandi centri di ricerca, tutti gli ospedali che fanno ricerca, ci sono ben 122 strutture dedicate al trasferimento tecnologico in Italia”, ma evidentemente lo fanno nel modo sbagliato. Forse anche proprio perché sono troppi e troppo distribuiti geograficamente. “Negli Stati Uniti ci sono tre soli hub geografici per le life sciences: attorno a Boston, attorno a Seattle e nella Bay Area di San Francisco. Lì sono concentrati i maggiori filantropi, i centri di ricerca delle big farma e i grandi fondi di venture capital con focus sul settore”. E poi, “le competenze vanno pagate. Dovremmo creare strutture di trasferimento tecnologico che prendano le persone che oggi lavorano in centri di eccellenza all’estero e le portino in Italia”.
Quanto al settore farmaceutico italiano, ha concluso Abrignani, le grandi aziende non fanno ricerca: “Sono tra le prime in Europa per fatturato ma è un fatturato che si concentra sulla commercializzazione di vecchi farmaci, mentre nella medicina di precisione che si basa sul biologico non c’è nessuno in Italia che sia nemmeno in grado di produrre”. Così alla fine non stupisce che “nel settore le uniche exit di successo siano state quelle da startup nate da spin off industriali di aziende internazionali, condotte da manager di quelle stesse aziende”.
Già, ma di che cosa c’è realmente bisogno in Italia in campo sanitario e quindi dove ci sarebbe più mercato per un progetto da sviluppare? A rispondere a queste domande è stata Alessandra Ghisleri, fondatrice di EuroMedia research, nota società specializzata in sondaggi di opinione che ha riferito che in un campionamento condotto il mese scorso la salute e i tempi di attesa per accedere alle visite è al secondo posto nelle preoccupazioni degli italiani con il 32,7% delle risposte, dietro all’inflazione (36,7%) e prima del lavoro (26,5%) e delle tasse (25,2%). Quanto ai medici, interpellati da EuroMedia a proposito dei loro bisogni, nel 53,4% dei casi non si ritengono soddisfatti dell’organizzazione della medicina sul territorio e si sentono sostanzialmente dei passacarte invece di fare quello per cui hanno studiato. Non solo. Ben l’83,7% degli intervistati ha detto di non sentirsi supportato dalle istituzioni sanitarie della propria provincia e regione e che non c’è collegamento con il mondo universitario. “C’è poi un tema di bassi stipendi del personale sanitario e un tema di carenza di fondi per ospedali che invece potrebbero dotarsi di macchinari diagnostici efficienti in grado di portare a erogare cure più mirate e tempestive, con risparmi per collettività”, ha detto ancora Ghisleri.
Detto questo, storie di successo per fortuna in questo settore ce ne sono anche in Italia. Il che significa che è possibile partire dai progetti, trovare investitori e arrivare anche a delle exit di soddisfazione. A fare da testimone c’era tra i relatori alla tavola rotonda Luca Benatti, imprenditore-investitore con un lungo track record nel settore. In particolare è oggi board member di Newron Pharmaceuticals, di cui è stato a suo tempo co-fondatore e ceo, portando l’azienda a sviluppare una pipeline di terapie innovative, tra cui Xadago, approvato in tutto il mondo per il trattamento del morbo di Parkinson. L’azienda è dal 2006 quotata a Zurigo. “Ho iniziato la mia carriera come manager in Farmitalia. Quando fu venduta, alla fine degli anni ’90, ho deciso che volevo diventare imprenditore, come stavano facendo alcuni miei amici in California. Allora siamo partiti da una molecola che era stata abbandonata dalla casa madre ed era ancora in laboratorio e siamo riusciti a farla diventare un farmaco oggi venduto in farmacia e commercializzato in Europa da Zambon. Abbiamo vissuto la difficoltà di portare una scoperta scientifica sino alla vendita: bisogna saper scegliere i progetti dove c’è valore e poi servono soldi e competenze. Sul fronte dei soldi in Italia feci tantissime telefonate ai venture capitalist di allora, ma nessuno mi volle incontrare e la domanda tipica era: quanto è grande questa fabbrica? Ma rispondevo che non c’era ancora una fabbrica, non c’era nulla, solo la ricerca. Invece i venture capital esteri capirono e riuscii a raccogliere 70 milioni di euro e alla fine anche a quotare l’azienda a Zurigo”. A quel punto, invece di ricollocarsi come manaer di qualche multinazionale del farma, Benatti ha voluto replicare l’esperienza ed è andato a cercare un nuovo progetto di ricerca che avesse secondo lui le caratteristiche giuste per essere trasformato in azienda. L’ha trovato all’Università di Urbino nelle ricerche dei due professori Mauro Magnani e Luigia Rossi e ha fondatoEryDel, azienda biotech specializzata nella somministrazione di farmaci veicolati mediante i globuli rossi del paziente. “Allora erano gli anni tra il 2010 e il 2012 e il venture capital italiano era entrato in una fase diversa, quindi qualcuno ha deciso di investire, oltre sempre a venture capitalist internazionali. Con questi capitali siamo riusciti a portare avanti il progetto sino alla fase pre-clinica, ma non alla commercializzazione. Per questo alla fine abbiamo deciso di far comprare l’azienda da una società biotech americana, Quince Therapeutics (luglio 2023, si veda altro articolo di BeBeez, ndr). Per gli investitori è stata una buona exit, perché hanno reinvestito e hanno una possibilità di ritorno sino a quasi 500 milioni di dollari, ma da un punto di vista industriale è un peccato perché non siamo riusciti a mantenere italiana l’azienda”.
In parallelo Benatti ha vissuto l’esperienza nel board di Intercept Pharmaceuticals, azienda biofarmaceutica statunitense quotata al Nasdaq e attiva nel trattamento delle malattie epatiche rare e gravi, con la quale alla fine dello scorso settembre l’italiana Alfasigma ha siglato un accordo per acquisire Intercept per 19 dollari per azione in contanti (si veda altro articolo di BeBeez), operazione poi conclusa lo scorso novembre (si veda qui il comunicato stampa di allora). “Intercept è americana ma nasce da un’idea di un professore italiano, che ha sintetizzato un composto che tratta una malattia del fegato rara. Anche in quel caso non ci sono stati venture capitalist italiani che hanno voluto supportare la crescita dell’azienda”, ha sottolineato Benatti. In effetti a supportare l’azienda non era stato un venture capital tradizionale, ma Genextra, il veicolo di investimento in società biotech fondato nel 2004 dal finanziere Francesco Micheli e dal defunto amico oncologo Umberto Veronesi, che ha poi portato in quotazione la società, che a quel punto ha attratto capitali americani, sebbene Genextra sia rimasta socia sino allo scorso novembre, quando appunto è stata comprata da Alfasigma. “Ancora una volta le grandi farma italiane investono nel settore solo quando c’è una pipeline commerciale e non prima”, ha detto ancora Benatti. Che poi negli ultimi anni con il cappello di presidente e fondatore di i Italian Angels for Biotech ha investito in varie altre iniziative, tra cui per esempio quella di Metis Precision Medicine e in quella di CasRevolution, e ora, ha anticipato: “Il mese prossimo svelerò la mia prossima iniziativa che nasce da una ricerca italiana“.
Se in Italia si fa ancora poco venture capital, però, è anche un po’ colpa degli investitori che stanno a monte della catena e che quindi dovrebbero dare ai fondi i capitali da investire. D’altra parte, “per attirare capitali in Italia sull’economia va educato chi possiede i patrimoni, va smossa la timidezza dei capitali privati”, ha detto Patrizia Misciattelli, fondatrice di AIFO – Associazione Italiana Family Office, nel suo intervento al BeBeez Networking Cocktail. Secondo Misciattelli, molte grandi famiglie imprenditoriali oggi ancora “mancano di coraggio” e ha aggiunto:”Nel momento in cui le aziende familiari sono ancora guidate da un imprenditore che ha 70-80 anni, che quindi controlla ancora il patrimonio di famiglia, non si pensa a investire in venture capital ma a vendere l’azienda, se non c’è stato passaggio generazionale. E quando l’azienda viene venduta e si vede sul tavolo per effetto della vendita una ricchezza importante, allora ci si spaventa ancora di più e si desidera proteggere quella ricchezza. Ma spesso chi affianca le aziende ha un cultura in cui prevale la finanza tradizionale, che è un’industria enorme e quindi è sugli asset liquidi che vengono di fatto convogliati i capitali”, ha detto chiaro Misciattelli, aggiungendo: “La finanziarizzazione dei patrimoni privati rischia di togliere attenzione alla costruzione dell’economia reale”. Nella realtà, ha aggiunto Misciattelli, per fortuna “anche nel nostro paese inizia a esserci un buon numero di family office consapevoli e capaci di costruire asset allocation con un’ottica di lungo termine che possa prevedere anche una quota di investimenti in economia reale, senza averne paura. Un trend che soprattutto nei paesi anglosassoni stiamo vedendo da tempo”.