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di Vincenzo Manes,
presidente esecutivo di KME
(testo del discorso pronunciato lo scorso 29 novembre, in occasione della nomina ad Alumnus LUISS 2023)
Magnifico Rettore, presidente Gubitosi, caro Daniele e amici del Luiss Alumni Network, caro Gianni, grazie per avermi voluto qui stasera e per avermi voluto conferire questo ambito riconoscimento.
Nella mia vita ho avuto la fortuna di ricevere diversi premi e riconoscimenti, sia per la mia attività imprenditoriale sia per quella sociale. Anche piuttosto importanti. Ma naturalmente non posso nascondervi quanto quello di stasera mi faccia particolarmente felice, oltre che rendermi onorato e fiero. Il motivo lo potrete immaginare: non capita tutte i giorni di ricevere un tale riconoscimento dalla propria Alma Mater, verso la quale il mio debito si fa da ora in avanti più grande. Come in tutte i riconoscimenti importanti, spetta al premiato condividere le sue considerazioni con le persone in platea. Io non farò eccezione stasera.
Ho pensato lungamente al titolo del mio intervento, e quello più appropriato, più logico che potrei dargli è: “Il falso mito della meritocrazia”. Potrebbe sembrare eretico in un luogo come questo, ma spero di riuscire alla fine a convincervi del contrario. Per farlo, permettetemi di raccontarvi la mia esperienza, dividendola in tre capitoli: gli inizi della mia carriera, la sfida imprenditoriale, l’impegno sociale.
Partendo dal primo: la mia giovinezza è stata idilliaca. Niente di speciale se non il fatto che ero figlio unico (viziato) di quella che si definirebbe una buona famiglia della provincia del sud. Senso di libertà estremo. Fiducia massima dei miei genitori. Nonostante fossi il campione regionale di pomeriggi passati a zonzo in Vespa con gli amici. Mi sono diplomato al liceo classico con 37/60. Quasi il minimo. Non avevo nessuna intenzione di occuparmi di finanza, impresa o management, e nessun particolare sogno, se non forse quello di studiare architettura. Così a 19 anni mi indirizzai verso questa facoltà, a Firenze. Era il 1979: aule perennemente occupate, contestazioni, corsi fermi al palo. Decisi allora, anche su suggerimento di mio padre, di iscrivermi alla più tranquilla Giurisprudenza. Del resto un legale in famiglia serve sempre. La mia carriera da aspirante avvocato durò appena un mese, per fortuna capii subito che non era la mia strada.
Mi trasferii a Roma, e la grande fiducia dei miei genitori credo abbia cominciato a vacillare. Almeno lo spero per loro. In pochi mesi avevo cambiato tre università. Mi iscrissi a Economia e commercio, alla Sapienza. Avevo un obiettivo: superare entro il primo anno quattro esami con la media del 28. Questo mi avrebbe permesso di essere ammesso alla Luiss al secondo anno. Volevo farlo solo per una ragione: raggiungere i miei amici che avevano le idee più chiare di me e che mi avevano preceduto qui. Me lo descrivevano come un ambiente idilliaco. Non so ancora come – in matematica alle superiori a stento raggiungevo il sei – superai il primo esame con trenta e lode, Matematica finanziaria 1. Questo mi diede fiducia per gli altri esami, e raggiunsi agevolmente la soglia richiesta per l’accesso in Luiss.
Alla Luiss la vita universitaria era ideale. I voti restavano molto alti. Ma ancora non riuscivo a intuire che cosa avrei voluto fare nella vita. Sapevo solo di volermi laureare con il massimo. Una sera, però, cambiò tutto. Era il terzo anno. La Luiss organizzava per gli studenti alcune conferenze esclusive, dove manager e imprenditori di successo condividevano con noi studenti le loro esperienze. Quella sera, l’ospite d’onore era un banchiere d’affari, Mario D’Urso (che poi sarebbe diventato un mio fraterno amico), uno dei pochissimi partner italiani di una delle maggiori banche di Wall Street [copertina su Capital]. Ascoltai rapito il suo racconto, e mentre ci parlava del suo lavoro pensai: “Vorrei fare quello che fa lui”. Alla fine del suo discorso, andai a parlargli, lui mi invitò a un cocktail e lì scoprii che conosceva molto bene mio zio. Faccio un inciso: mio zio era un economista specializzato a Princeton, dove si era fatto notare per una contestazione, piuttosto coraggiosa, a un teorema matematico di Albert Einstein, che all’epoca lavorava nello stesso ateneo. Un cervellone. Mario si illuse che anch’io potessi essere un intellettuale di quel rango. E così, prima di laurearmi, mentre facevo il militare, cominciò a invitarmi a fare uno stage nel suo ufficio a Roma, dove non imparai la tecnica sopraffina bancaria, ma una delle cose più importanti per ogni tipo di professione: capire le relazioni, quanto esse siano fondamentali per stare al mondo. E che mondo, quello al quale aveva accesso Mario! Questa esperienza mi portò a fare una tesi di laurea dal titolo: “Banche d’affari in Italia, sviluppo e prospettive”. Mario mi aiutò a trovare letteratura su questo tema. Come potete immaginare era una letteratura piuttosto esigua, all’epoca.
L’argomento pionieristico della tesi e l’amicizia con Mario, appena laureato, mi permisero di fare un colloquio presso Citicorp. Il colloquio me lo ricordo ancora, durò la bellezza di quattro minuti e mezzo. Non riesco ancora a spiegarmi quella brevitas… Rimasi per due anni nell’ufficio di Citicorp di Milano, reparto M&A, ero all’apice della soddisfazione. Arrivò presto il momento in cui mi accorsi di aver bisogno di raccogliere nuove sfide intellettuali. A fare il classico MBA non ci pensavo proprio. Forse anche per la voglia di scegliere un percorso insolito, originale, o magari solo per la sindrome di Ecce Bombo, mi candidai e venni ammesso ai corsi di un master of science in storia alla London School of Economics. I miei capi mi chiesero di ripensarci. Per convincermi promisero che mi avrebbero trasferito a New York, nell’ufficio più ambìto di tutta l’organizzazione: Citicorp Venture Capital. Era uno dei posti più emozionanti al mondo dove fare finanza (se mai la finanza può far battere un cuore). Stava nascendo, lì e in quel momento, l’industria del private equity. 6 Accettai e nel 1987 partii per Manhattan. Anzi: partimmo, tutte e tre. Seduta accanto a me, su un volo di sola andata, c’era mia moglie, che è qui con noi stasera. Ci accompagnava in stiva anche il nostro cane. Era un’avventura vera.
Per riassumere questo primo capitolo: nel 1979 ero uscito dal liceo classico di Campobasso con 37/60, avevo cambiato tre facoltà prima di capire che strada prendere. tiopo otto anni ero seduto al 28° piano dell’iconico Citicorp building e avevo uno dei lavori più ambìti al mondo. Il secondo capitolo cominciò a Manhattan, dove i pensieri e i desideri presero una piega diversa. Ci misi poco a capire che il mio sogno non era diventare manager di una grande corporation, ma essere un imprenditore. Volevo poter guidare il mio destino. Così accelerai il rientro, e dopo alcuni mesi lanciai assieme ad alcuni altri soci, che poi sono diventati fraterni amici, il primo fondo di private equity in Italia. Un fondo da circa 50 miliardi di lire. La cosa bella era che avevo 28 anni e fra i soci c’erano Rockefeller, Rothschild, alcune fra le principali banche italiane. Quel fondo si trasformò in permanent capital attraverso l’acquisizione di una società quotata nel 1994 e così 7 proseguii fino al 2004.
Per fortuna, nel ciclo di alti e bassi, questi ultimi furono praticamente inesistenti. Ma, di nuovo: ricominciai a sentire le sirene di un fascino intellettuale insoddisfatto e la voglia di cambiare. Nel mio lavoro nel private equity avevo conosciuto tanti imprenditori, imparando ad apprezzare la bellezza del processo che ti porta a inventarti un prodotto, un mercato. Intellettualmente, mi sembrava che questi imprenditori facessero qualcosa di più sexy rispetto a quello di cui mi occupavo io in quel momento. Così, non potendo crearne una da zero, colsi l’opportunità di rilevare un’azienda industriale, KME: leader europeo nel settore della lavorazione del rame. Piccolo particolare: l’azienda all’epoca aveva 3 miliardi di euro di fatturato, 14 fabbriche nel mondo, impiegava 6.500 persone.
Dunque, riassumendo il secondo capitolo: nel 1988 parto con il primo fondo di private equity in Italia di appena 50 miliardi di lire, dopo 15 anni sono azionista e ceo di quello che all’epoca era uno dei più grandi gruppi industriali del Paese. Cosa che mi porta a diventare, a 50 anni, Cavaliere del lavoro, caso piuttosto inconsueto per chi parte non dall’industria, ma dalla finanza. tia notare che questo è 8 avvenuto con gli stessi fraterni amici-soci e colleghi con cui ho dato vita al fondo di private equity e con cui continuo ancora a lavorare. Sono loro il mio reference group, il gruppo che, secondo una ricerca di Harvard, rimane con te per tutta la vita ed è determinante per il successo più o meno ampio di una persona.
Il terzo capitolo, quello dell’impegno sociale, necessita di una premessa: mi sono chiesto varie volte da cosa fossi stato spinto a occuparmene. Le spiegazioni che mi sono dato nel tempo sono state, nell’ordine: la mia esperienza americana, dove ho imparato che il successo non è solo quanti soldi fai, ma anche e soprattutto quante persone aiuti; la nascosta voglia di fare politica; o magari la voglia di dimostrare al mio preside del liceo classico di aver trovato una maniera diversa e più concreta di essere un cittadino attio. Quando a scuola c’erano scioperi, io e i miei amici invece di manifestare andavamo a sciare a Campitello Matese. Il preside ci apostrofava, allora, come qualunquisti. Avrei voluto dirgli, parafrasando Ionesco: “Preside non si preoccupi, diventeranno tutte notai”. Il terzo capitolo cominciò nel 1997, con l’acquisto della casa editrice del magazine Vita, un passo fondamentale per conoscere meglio il terzo settore.
Nel 2001 parte il primo progetto di venture philantropy, che nel 2003 ci portò alla costituzione della Fondazione Dynamo. Avevamo l’obiettivo di aiutare altri enti con fondi, contaE, supporto manageriale. L’esperimento non ebbe successo, almeno fino a quando conobbi una signora, nel corso di una cena. Mi parlò di suo figlio, colpito e poi guarito da un tumore: aveva cominciato a fare il volontario all’interno dell’organizzazione che lo aveva aiutato a superare quel momento. L’organizzazione si chiamava The hole in the wall camps, offriva percorsi di terapia ricreativa gratuita ed era stata fondata niente meno che dall’attore Paul Newman. Ci siamo, pensai. Questo è quello che voglio fare. Portare la terapia ricreativa in Italia. Avevo bisogno di parlare con Paul Newman. E dunque, nonostante non lo conoscessi, gli scrissi una lettera. Mi rispose.
Oggi la Fondazione lavora su quattro pilastri. Il più visibile di tutte è il Camp, una struttura che ogni anno accoglie circa 2mila persone – bambini affetti da gravi patologie e le loro famiglie – alle quali si aggiungono 6 mila ospiti dei City Camp a Roma, Firenze, Milano, Catania, Napoli. Con loro, lavoriamo per garantire il diritto alla felicità e alla normalità, anche dove sembra non esserci più spazio per un sorriso. Inoltre Dynamo è diventata tante altre cose: 10 una scuola di formazione con Dynamo Academy; un progetto di conservazione ambientale con l’oasi WWF Dynamo, 1.200 ettari nell’Appennino pistoiese che diventeranno 5mila nei prossimi anni; una fondazione dell’arte, con una collezione di oltre 2mila opere e soprattutto un gruppo di importanti artisti che lavorano assieme ai nostri ospiti. E dunque, riassumendo il terzo capitolo: dal 2003 al 2023 Dynamo è diventata molto più grande di quanto non credessi possibile. Oltre ad aver ospitato fino a oggi 70 mila persone, aver contato su 10 mila volontari, ha raccolto oltre 100 milioni di euro. Vi lavorano 250 collaboratori fissi e altrettanti stagionali. È diventato uno dei progetti di riferimento nel Paese, e non solo, su come il privato sociale possa operare in maniera efficace ed efficiente in questo ambito credo e spero che tutto ciò che vi ho raccontato fin qui sia il motivo per cui sono qui stasera. Permettetemi però alcune riflessioni su questo percorso.
La prima: al contrario di molte persone di successo chiamate a raccontare la propria storia, non posso dirvi che ho seguito il mio sogno o che ho abbracciato una particolare passione. Se proprio ne avevo una, io volevo fare l’architetto.
La seconda è che, per quanto la mia preparazione in questa università sia stata fondamentale, e avete capito perché, mai e poi mai avrei immaginato le cose meravigliose che ho avuto la possibilità di vivere e realizzare, almeno per me, che stasera vi ho raccontato in piccola parte, per quello che ho potuto. Ora, se dessi di questa avventura una lettura classica, potrei dire che sono arrivato qui grazie al mio talento, che ritengo risieda molto nella curiosità, alla mia perseveranza e costanza, alla coerenza e attenzione a non tagliare mai gli angoli e a scegliere la strada più lunga se necessario, per arrivare sempre a un risultato in cui prevale sempre la qualità sulla quantità, al coraggio nel prendere dei rischi, come ogni imprenditore sa e fa, all’ossessiva cura per il dettaglio, e infine alla pratica costante e continua di un insegnamento di mio padre fin da piccolo: l’onestà intellettuale. In altre parole, tutto ciò che ho raggiunto nella vita è merito di queste mie qualità. In realtà, ho sempre avuto dei forti dubbi su questo tipo di lettura. Tanto da aver cominciato a ragionare e forse a scrivere un libro che dovrebbe contenere alcune delle riflessioni che sto per fare qui. È da un po’ di tempo, infatti, che ripenso a una vecchia intervista a Paul Newman. Quando gli chiesero come si sentisse per aver realizzato una cosa così enorme come la sua iniziativa filantropica, il primo posto al mondo che offriva terapia ricreativa gratuita a bambini malati, rispose: “It’s all a matter of luck. Non ho fatto niente di straordinario, nella vita ho solo avuto molta fortuna. Restituirla in parte mi viene naturale, come alzarmi al mattino”.
Un pensiero simile mi viene spesso in mente, negli ultimi anni, non so se influenzato da questa intervista, ma è comunque così: delle cose che ho realizzato, enormi rispetto alle mie aspettative iniziali, non ce n’è una che mi abbia costretto a particolari sacrifici, o a rinunciare a qualcosa di fondamentale per me o per i miei cari. Non mi sono mai mancati né il tempo né le risorse di cui ho avuto bisogno per le cose che ritenevo importanti o che mi piaceva fare, per fortuna. È venuto tutto naturale. Tra quelle più importanti, mi capita spesso di incontrare i genitori dei bambini ospitati in Dynamo. Oltre ai “grazie” di rito e soprattutto di cuore, a volte spendono qualche parola anche troppo celebrativa nei miei confronti, che mi fa provare una sensazione a metà fra pudore e imbarazzo. Per loro io sono un “mito”, il “visionario” che ha fondato Dynamo, e loro semplicemente delle persone fortunate che hanno avuto l’opportunità di partecipare ai nostri programmi.
Allora aspettate un po’! Ricapitoliamo. Si definiscono fortunate persone che hanno un bambino gravemente malato o disabile, e che hanno la responsabilità e il peso di questo compito: 24 ore al giorno, 7 giorni su 7, tutto l’anno, tutte gli anni. In alcuni casi, parliamo di famiglie che vengono a fare da noi la prima vacanza, tutte insieme, dopo 17 anni. Quindi, come funziona? Io sono il mito e loro i fortunati? Nel nostro comune intendere, ed è paradossale che valga anche per questi genitori, tendiamo a chiamare sfortunate le persone che hanno una disabilità o una malattia grave, ma invece consideriamo il talento, che è legato al nostro cervello o all’abilità del nostro corpo, come un nostro esclusivo merito. Ma se è sfortuna essere disabili, probabilmente è altrettanto vero che è fortuna avere, gambe, mani, occhi, oltre che naturalmente cervello (chiamatelo talento se preferite), che funzionano come dovrebbero. Quale lezione ho tratto, almeno fino a oggi, da tutto questo? Che forse il mondo è pieno di persone che si alzano al mattino e si spaccano la schiena di lavoro, che hanno problemi enormi di cui occuparsi in famiglia, che fanno sacrifici, ma che più di me hanno intelligenza, curiosità, perseveranza, talento. E che non solo non riescono ad avere una vita di successo, ma devono lottare duramente per conquistare anche le piccole cose che a noi sembrano scontate. E questo solo perché, direbbe Paul Newman, it’s all a matter of luck. E loro non ne hanno avuta abbastanza.
Pensate al mio caso. Stasera ho avuto il privilegio di raccontarvi la mia storia. Ma non sarei qui se non avessi avuto dei genitori che mi hanno educato alla libertà e alla fiducia nelle possibilità che offre il mondo, pur essendo figlio unico, nel sud Italia negli anni 70; se non avessi avuto l’opportunità di studiare in una università esclusiva come la Luiss, che mi ha permesso di ascoltare l’intervento e poi di stringere amicizia con Mario D’Urso. E se Mario non fosse stato amico di mio zio? Se non avessi trovato soci e amici, 15 che oggi sono gli stessi di quando sono partito, il famoso reference group di cui vi parlavo prima, con cui far crescere KME – solidi e costanti nella buona e nella cattiva sorte? Se non fossi andato alla cena che rese finalmente produttii i 5 anni precedenti, passati a occuparmi di venture philantropy, dove scoprii la terapia ricreativa dei camp di Paul Newman? Potrei andare avanti con tanti altri “se”.
Qual è allora il punto che voglio fare stasera? Che cos’è il vero merito? Quanto invece conta la fortuna? L’individualismo meritocratico tipico della nostra società occidentale ci ha abituato a pensare che per avere successo bastino talento, abilità, intelligenza, impegno, e assunzione di rischi. Peccato che muovendoci solo lungo questo percorso si tendano a dimenticare i vantaggi che avevamo ancora prima di partire, e quindi soprattutto a sottovalutare gli svantaggi di chi non ce l’ha fatta. Il risultato è quello di perdere ogni empatia verso chi è stato semplicemente meno fortunato. In realtà, si potrebbe superare questo scarto con un esercizio poco impegnativo. Provate per esempio a immaginare che destino avreste avuto se foste nati in un Paese più povero, se foste cresciuti in una famiglia diversa, se non aveste studiato dove vi siete formati. A quel punto, dovreste poter guardare una persona che soffre, riuscendo forse a pensare: “Quello potrei essere io”. Eppure la maggior parte di noi, quando pensa al proprio successo, non lo giustifica se non in piccolissima parte con la fortuna che ha avuto. Convincendosi, col tempo, che è tutto merito suo.
Da quando ho cominciato a fare queste riflessioni, ho cominciato a chiedermi se non fossero indicatrici di una senilità incipiente. Per fortuna, in realtà, ho scoperto di essere in nutrita compagnia. Esiste un’ampia letteratura prevalentemente anglosassone su questi temi. Soprattutto nelle università americane, il dibattito va avanti da molto tempo. Non ultimo in un libro particolarmente interessante: “The Genetic Lottery. Why DNA Matters for Social Equality”, in cui si fa dimostra, con studi abbastanza accurati, che il successo economico e professionali è merito innanzitutto del patrimonio genetico di ciascuno di noi. Dibattito che condiziona in maniera diversa il comportamento delle persone. I progressisti liberal riconoscono la necessità di tassare chi ha avuto più successo, ridistribuendo a favore di chi ha avuto meno fortuna. La visione conservatrice si concentra invece sul merito individuale, in base al quale è ogni persona a decidere quanto e se restituire. Ma, comunque: restituire.
In un Paese di individualismo esasperato come il nostro, il dibattito mi sembra più affievolito. E certamente non ci saremmo aspettati nulla di diverso. Se pensiamo poi nello specifico all’individualismo meritocratico, la cosa diventa ancora più evidente. A questo proposito, ho una mia banale e forse anche ridicola spiegazione, non particolarmente elaborata dal punto di vista teorico, basata però sull’esperienza pratica: molte persone di successo sono colpite da una sindrome, che a differenza di quasi tutte le altre non è rara, e che potremmo scegliere di definire la “sindrome del Marchese del Grillo”. La sua conseguenza (almeno per me cattiva o addirittura pessima) di questa sindrome, è che il merito è “tutto mio”, tutto quello che ho realizzato me lo sono guadagnato, faccio il mio dovere pagando le tasse, e non devo nulla di più. Ma persino il buon Marchese, a un certo punto, si redime. Abbiamo speranza di cambiare passo anche noi? Dipende. Dipende da quanto riusciremo ad attuare un cambiamento prima di tutto culturale.
E allora qual è il luogo migliore dove auspicarlo e incoraggiarlo se non l’università – e questa in particolare? Qual è l’obiettivo minimo di questo cambiamento? Instillare nel maggior numero possibile di ragazzi che frequentano questo ateneo un semplice dubbio: “Ma è tutto merito mio? “Cosa devo invece alla fortuna? Di essere nato in una certa famiglia, o in uno dei Paesi più ricchi del mondo, o di frequentare una esclusiva università come la Luiss, e di vivere in un’epoca in cui nessuno si aspetta di sacrificare i miei interessi per qualcosa. Ma se questo fosse vero, non avrei il dovere di condividere i frutti di tale fortuna con chi ne ha ricevuta in misura molto inferiore? E allora che cos’è il merito se non riconoscere questa fortuna e ridistribuirla?”. E al tempo stesso l’obiettivo è far capire che per la crescita e il successo di un individuo contano la posizione sociale, l’educazione ricevuta, il successo economico, ma più ancora, come insisteva Nelson Mandela, “la generosità, l’assenza di vanità e la prontezza a servire gli altri esseri umani”.
Aggiungerei anche un corso dal titolo: Ego is the enemy. Oltre a instillare un dubbio, sono convinto che un percorso formativo di alto livello, come quello che questa università propone, debba riuscire a far capire agli studenti quanto sia appagante esercitare con costanza la generosità, prendersi cura degli altri, avere una partecipazione attiva nella società a favore di chi ha avuto meno fortuna. Ispirare un nuovo tipo di merito e un esercizio sistematico dell’empatia. Come? Integrando la formazione degli studenti affinché, oltre a saper fare le loro naturali e più corrette scelte professionali, capiscano l’importanza e la bellezza di essere dei civil servant. A prescindere, e comunque, dalla strada che sceglieranno di seguire. Affinché colgano che in quell’ideale percorso che si fa ogni giorno da casa propria (il cerchio degli affetti) al proprio lavoro (il cerchio degli interessi), non si può camminare restando sempre e solo nella parte più soleggiata.
Bisogna imparare a guardare e se necessario a spostarsi dall’altro lato, dove generalmente c’è ombra. E se si osserva qualcosa che non funziona, fermarsi, tornare indietro, rendersi conto, intervenire; non limitarsi a mettere un cerotto a ciò che non funziona, ma agire concretamente e con impegno, cercare di risolvere quel problema. È da quel punto in avanti, e non prima, che si comincerà a misurare il loro merito. Le università hanno il compito di formare i leader del nostro Paese. Un compito che per definizione tocca ancora di più a questo ateneo.
La leadership è fatta di consapevolezza. Uno degli elementi chiave di questa consapevolezza è che esiste un uso più corretto, più giusto del proprio talento. Esercitarlo, portarlo al successo e metterlo quanto prima possibile al servizio del bene comune. Dobbiamo cominciare proprio da qui a far capire ai futuri imprenditori e manager che avranno successo anche grazie al privilegio di aver studiato qui. E che potranno, che dovranno impegnarsi per realizzare il loro merito più grande: essere decisivi per la vita di qualcun altro che non ha avuto la loro stessa, decisiva fortuna. Grazie a tutti.