Le aziende meno indebitate sono anche quelle che meglio rispettano i criteri ESG e che crescono più velocemente e sono più redditizie delle loro pari. Quindi, in sostanza, è vero anche il contrario e cioè che le aziende più attente al raggiungimento di obiettivi di impatto ambientale e sociale e di buona governance, sono anche quelle che hanno migliori performance finanziarie. E queste relazioni positive sono ancora più evidenti negli anni successivi a un’operazione di m&a e più in particolare all’ingresso nel capitale da parte di un investitore di private equity.
Sono i risultati di due studi, uno dell’Università Bocconi di Milano e l’altro dell’Università Sant’Anna di Pisa (si vedano qui le slide di riassunto dei due studi e qui lo studio del Sant’Anna), commissionati da FSI, la casa di private equity fondata e guidata da Maurizio Tamagnini, che gestisce un fondo da 1,4 miliardi di euro, che può a sua volta contare sulla potenza di fuoco di alcuni dei suoi coinvestitori, tra i quali si contano noti fondi, oltre a fondi pensione, banche e compagnie di assicurazione. Tutti investitori che ormai hanno sposato la causa ESG e che per questo pretendono che i fondi nei quali mettono i loro soldi a loro volta siano attenti a che le loro partecipate rispondano ai medesimi criteri e che le accompagnino nel raggiungimento di quegli obiettivi (si veda qui l’Impact Report 2019 di FSI).
I risultati dei due studi sono stati anticipati sabato 17 luglio su MF Milano Finanza da Stefania Peveraro, direttore di BeBeez. Lo studio dell’Università Sant’Anna di Pisa, in particolare, dimostra che la causa ESG non è soltanto un atteggiamento positivo che fa bene alle persone e al pianeta, bensì che è una filosofia di gestione, delle aziende da un lato e del portafoglio di partecipazioni dall’altro, che porta benefici economici tangibili.
Maurizio Tamagnini ha commentato: “La crescita dimensionale delle imprese non è più una opzione ma un obbligo per restare competitivi nel medio lungo periodo. FSI è nata con l’obiettivo di diventare il punto di riferimento per la crescita di tutte quelle belle aziende Italiane, leader di nicchia o di prodotto, che vogliono un capitale paziente, ma dinamico, con il quale rapportarsi ogni giorno perché vicini fisicamente e con affinità culturali. Noi crediamo molto alla nostra formula di investimento in partnership con gli imprenditori, con un uso moderato della leva finanziaria: i risultati positivi si sono visti all’interno del nostro portafoglio. Il fatto che due prestigiose Università riconosciute e apprezzate anche a livello internazionale abbiamo confermato la nostra visione ci dà ulteriore energia che riverseremo a sostegno della crescita delle imprese italiane”.
Per arrivare ai risultati relativi alla relazione tra minore leva e migliori performance finanziarie, la Bocconi ha analizzato 11 mila aziende italiane non quotate con ricavi superiori ai 20 milioni di euro e 400 operazioni di private equity. L’Università Sant’Anna ha invece analizzato un campione di oltre 6600 aziende globali non finanziarie quotate e non quotate lungo un periodo di 15 anni della loro storia dal 2003 al 2018, mettendo a confronto performance finanziarie e performance ESG.
Sul fronte della leva, quest’ultima ricerca dimostra che maggiore è il debito finanziario netto in rapporto all’ebitda e peggiori sono gli score delle singole aziende analizzate in relazione a dieci categorie di variabili che rappresentano obiettivi ambientali, sociali e di governance. Contestualmente la ricerca dimostra che maggiore è la leva e peggiori sono le performance finanziarie aziendali. E per evitare distorsioni dovute al fatto che alcuni settori sono per definizione a più alto debito, i ricercatori hanno condotto lo stesso tipo di analisi per campioni più ristretti, tra aziende del medesimo settore e hanno ritrovato le medesime correlazioni. La ragione alla base di questi risultati potrebbe essere il fatto che quando un’azienda ha poco debito, ha più spazio di manovra per cogliere le migliori opportunità di investimento e quindi condurre operazioni di m&a oppure per esempio proprio investire in nuovi impianti a basso impatto ambientale e quindi migliorare i propri score ESG.
Detto questo, i ricercatori dell’Università Sant’Anna hanno indagato sugli effetti di un’operazione di m&a significativa che porti nuove risorse in azienda, per vedere se e quanto questo tipo di operazioni vadano a modificare le performance finanziarie aziendali e le strategie d’impresa relative al raggiungimento dei criteri ESG.
Per condurre questa analisi i ricercatori hanno ristretto il campione a 3.661 deal relativi a 1561 aziende globali, in modo tale da considerare soltanto operazioni su aziende non finanziarie, che non fossero degli spin-off o delle operazioni infragruppo e che riguardassero una quota superiore al 5% del capitale. A quel punto hanno analizzato l’evoluzione delle variabili a 2, 4 e 6 anni rispetto a due anni precedenti il closing dell’operazione di m&a e hanno evidenziato che tutti gli score relativi alle variabili ambientali e sociali migliorano di anno e anno, mentre quelli relativi alla buona governance peggiorano in un solo caso su tre, ragionevolmente perché ci vuole un certo periodo di tempo affinchè il board riconquisti indipendenza e si aggiusti ai criteri di genere.
Quanto alle performance finanziarie, non c’è una evidenza univoca nei dati aggregati, ma se si riduce l’analisi alle sole operazioni di m&a relative a una quota di capitale superiore al 15%, allora in questi casi la correlazione tra m&a e riduzione della leva e miglioramento della redditività risulta molto più chiara, sempre contestualmente a un miglioramento degli score ESG. Infine un ulteriore livello di analisi ha dimostrato che queste relazioni virtuose sono ancora più forti nel caso in cui gli investitori siano domestici, cioè dello stesso paese dell’azienda target, e nel caso in cui si tratti di investitori finanziari.