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di Matteo Confalonieri
investment manager
di Milano Investment Partners sgr
La domanda totale annuale di idrogeno verde potrebbe crescere da 62 milioni di tonnellate nel 2018 a 530 milioni di tonnellate nel 2050, sostituendo circa 10,4 miliardi di barili di petrolio equivalente in vari settori, pari al 37% della produzione globale di petrolio pre-pandemia. Lo ha calcolato strategy& (parte del gruppo PwC) nel suo Report The dawn of green hydrogen, pubblicato nel 2020, ma ancora attuale, secondo il quale il mercato globale di esportazione annuale dell’idrogeno verde dovrebbe valere circa 300 miliardi di dollari all’anno entro il 2050. Ma perché questo accada davvero ci vuole una spinta che venga dalla normativa, perché le disposizioni legali di un governo creano la certezza dell’investimento necessaria per l’ulteriore sviluppo di tecnologie sostenibili e la costruzione di impianti.
Per esempio, sulla base della Renewable Energy Directive II (RED II) della Commissione Europea, la Germania ha approvato una legge nel maggio 2021 per aumentare gli obiettivi di riduzione delle emissioni nel suo settore dei trasporti. Per soddisfare tali ambizioni, è stata firmata una tabella di marcia per l’efficientamento del mercato del carburante per l’aviazione, basato sull’elettricità e sull’ecosostenibilità. Il governo tedesco ha infatti deciso di prescrivere una quota fissa per il cherosene sintetico miscelato, attesa allo 0,5% entro il 2026, con la previsione di un aumento al 2% entro il 2030. La quota minima vincolante, progressivamente crescente per il cherosene a base di energia elettrica prevista dal governo federale, ne farà avanzare in modo massiccio la produzione su scala industriale.
La spinta normativa è anche necessaria per indurre gli attori del mercato a trovare metodi per superare il tema dei costi, che a loro volta dipendono dal metodo utilizzato per ottenere l’idrogeno. Ricordiamo che l’idrogeno grigio è quello che si ottiene dal processo più comune e più inquinante, che utilizza come materia prima il gas naturale o il carbone, i quali, reagendo con il vapore ad alte temperature e generando pressioni per produrre gas di sintesi, producono principalmente idrogeno e monossido di carbonio. Il gas di sintesi ottenuto viene poi fatto reagire con ulteriore acqua per produrre idrogeno puro e CO2. Si tratta di un processo consolidato, già ampiamente utilizzato in ambito industriale, che tuttavia genera emissioni significative di anidride carbonica. È per questo motivo che l’idrogeno creato da questo processo non “pulito” viene detto “grigio”.
Quanto all’idrogeno blu, la sua produzione si basa sugli stessi processi di base dell’idrogeno grigio ma, a differenza di quest’ultimo, mira a intrappolare fino al 90% delle emissioni di gas serra attraverso la tecnologia di cattura del carbonio, e rappresenta quindi una tecnologia più pulita rispetto alla prima. In alcuni casi, il carbonio viene immagazzinato nel sottosuolo, con un procedimento che richiede notevoli costi di capitale. In alternativa, viene riutilizzato come materia prima per applicazioni industriali, in cui, quindi, la CO2 viene ancora rilasciata nell’atmosfera.
Invece la produzione di idrogeno verde usa l’energia rinnovabile per alimentare l’elettrolisi che divide le molecole d’acqua in idrogeno e ossigeno. Si tratta del processo più pulito, visto che impiega energia da fonti rinnovabili, ed è per questo motivo che l’idrogeno prodotto in questo modo viene definito verde. Infine c’è anche il cosiddetto idrogeno rosa, che viene sempre prodotto tramite elettrolisi dell’acqua, ma il processo non viene alimentato dall’energia prodotta da fonti rinnovabili, bensì dall’energia nucleare. Si tratta di un processo quindi pulito, ma più controverso rispetto a quello per la produzione di idrogeno verde.
Tornando al tema dei costi, attualmente l’idrogeno verde costa molto di più dell’idrogeno grigio (parliamo in media di un prezzo di produzione più alto del 73%-110%), e anche più dell’idrogeno blu (il 27%-31% in più). Per fare un raffronto, l’idrogeno verde costa tra 2,1 e 3,8 dollari al chilogrammo, contro 1,6-3 dollari al chilogrammo di quello blu e 1-2,2 dollari di quello grigio. Ma entro il 2030, sempre secondo lo studio di strategy&, l’idrogeno verde dovrebbe diventare più economico dell’8%-13% rispetto all’idrogeno grigio e del 27%-29% rispetto all’idrogeno blu.
Il principale costo per la produzione in loco di idrogeno verde è il costo dell’elettricità rinnovabile necessaria per alimentare l’elettrolizzatore. Questo rende la produzione di idrogeno verde più costosa dell’idrogeno blu, indipendentemente dal costo dell’elettrolizzatore. Un basso costo dell’elettricità è quindi una condizione necessaria per produrre idrogeno verde in modo competitivo. Tuttavia, il basso costo dell’elettricità da solo non è sufficiente, e sono necessarie anche riduzioni del costo degli impianti di elettrolisi.
A oggi esistono tre principali tecnologie per l’elettrolisi con diversi livelli di maturità:
- L’elettrolisi alcalina (AE), è la tecnologia più basilare e matura, e vanta una quota di mercato di circa il 70% del mercato dell’idrogeno verde. Beneficia di un basso costo e permette un processo che ha una lunga vita operativa. Tuttavia, i processi di elettrolisi alcalina hanno bisogno di funzionare continuamente, altrimenti l’attrezzatura di produzione rischia di danneggiarsi. La natura intermittente dell’energia rinnovabile, quindi, la esclude come unica fonte di energia per questo genere di elettrolisi.
- L’elettrolisi a membrana a scambio protonico (PEM), che ha una quota di mercato di circa il 30% e viene adottata dalla maggior parte dei principali produttori di elettrolizzatori. Il PEM ha molti vantaggi rispetto all’AE (velocità, sicurezza, eccetera), ma ha anche uno svantaggio significativo, cioè necessita di materiali molto costosi.
- L’elettrolisi a membrana a scambio anionico (AEM). La ricerca sui sistemi AEM fino a oggi è stata limitata alla scala di laboratorio, con particolare attenzione allo sviluppo di elettrocatalizzatori, membrane e comprensione dei meccanismi operativi con l’obiettivo generale di ottenere un’alta efficienza, basso costo e dispositivi AEM stabili.
Lo stesso ragionamento vale anche per gli e-fuel, cioé i combustibili sintetici, risultanti dalla combinazione di idrogeno verde e CO2 catturata da una fonte concentrata (per esempio i gas di scarico di un sito industriale) o dall’aria (tramite cattura diretta dell’aria, in gergo nota come DAC): si tratta di soluzioni pulite che però al momento costano molto di più di quelle non pulite.
I costi di produzione degli e-fuel sono attualmente relativamente alti (fino a 7 euro al litro) ma dovrebbero diminuire nel tempo grazie alle economie di scala, al progresso delle conoscenze tecniche, e a una prevista riduzione del prezzo dell’elettricità rinnovabile; questo dovrebbe portare a un costo di 1-3 euro al litro (senza tasse) nel 2050, circa 1-3 volte superiore al costo dei combustibili fossili, entro il 2050.
A causa delle perdite di conversione, anche in questo caso il prezzo dell’elettricità è il principale determinante dei costi variabili della produzione di e-fuel. L’accesso a una fonte sostenibile e conveniente di energia rinnovabile è quindi essenziale per il funzionamento economicamente redditizio di un impianto di produzione di carburanti sintetici.
Sebbene rappresenti una soluzione temporanea, in quanto non abbatte completamente le emissioni di CO2, l’e-fuel ha tuttavia il vantaggio di essere facilmente immagazzinabile, e potrebbe essere utilizzato nelle infrastrutture esistenti. Quindi è probabile ipotizzare uno scenario in cui in una prima fase l’e-fuel possa rappresentare la principale alternativa sostenibile ai combustibili fossili per il trasporto pesante, per poi, in una seconda fase, essere affiancato (e, in una terza fase, sostituito) dall’idrogeno verde.
Ma per accelerare la transizione tra fonti fossili a fonti rinnovabili saranno necessari sforzi su molteplici fronti. Da un lato, come accennato sopra, i governi dovranno continuare a incentivare il passaggio a fonti rinnovabili imponendo obblighi (come ha fatto la Germania per il trasporto aereo) ed elargendo contributi per abbassare un costo che a oggi non è ancora competitivo rispetto alle fonti fossili, oltre che stanziando risorse per finanziare i progetti di ricerca e sviluppo che abbiano come oggetto l’e-fuel o l’idrogeno verde, e infine investendo nelle infrastrutture per favorire lo sviluppo dell’idrogeno. Dall’altro, i fondi di venture capital e le grandi aziende dovranno osare maggiormente in questi due verticali ancora giovani, ma con un alto potenziale di crescita, investendo maggiormente rispetto a quanto fatto finora in ricerca e sviluppo (idrogeno verde) o di validazione (e-fuel).
A oggi, per quanto riguarda l’idrogeno verde, il principale deal visto finora riguarda il round da 24 milioni di dollari raccolti a giugno 2021 dall’azienda americana Electric Hydrogen, a cui hanno partecipato Breakthrough Energy Ventures, Prelude Ventures e Capricorn’s Technology Impact Fund. Ma intanto lo scorso ottobre 2021 è stata anche annunciata la nuova joint venture tra Ardian e FiveT Hydrogen, Hy24, che punta a raccogliere 1,5 miliardi di euro che saranno investiti in infrastrutture per l’idrogeno verde.
Per quanto riguarda poi l’e-fuel, i deal principali riguardano due aziende tedesche: da un lato, Sunfire, che ha raccolto oltre 54 milioni di euro da gennaio 2013 a novembre 2020, in diversi round in cui hanno investito tra gli altri Inven Capital, Idinvest e Total Carbon Neutrality Ventures (mentre lo scorso gennaio ha incassato un grant da 60 milioni di euro dal governo tedesco e nell’ottobre 2021 ha incassato un round da 109 milioni di euro, guidato da Lightrock e Planet First Partners, ndr); e dall’altro, Ineratec, che ha chiuso un round a luglio 2021 (con un ammontare non divulgato) da parte di Planet A Ventures ed Extantia Capital (e ne ha chiuso un altro da oltre 20 milioni di euro lo scorso gennaio, ndr).
L’articolo è tratto dal quarto numero di “The Society Magazine – Decrypting Tomorrow”, progetto editoriale di Milano Investment Partners sgr