Il colosso del private equity Carlyle ha annunciato ieri il cambio generazionale alla guida del gruppo, con i tre soci fondatori che a partire dal 1° gennaio 2018 faranno un passo indietro dopo 30 anni di successi, per lasciare spazio a tre soci più giovani (scarica qui il comunicato stampa).
Nel dettaglio, Kewsong Lee e Glenn A. Youngkin diventeranno co-ceo di The Carlyle Group e Peter J. Clare sarà co-cio insieme all’attuale cio William E. Conway, Jr. I tre nuovi nominati diventeranno quindi anche membri del Consiglio di amministrazione di Carlyle.
Quanto all’attuale presidente Daniel A. D’Aniello, diventerà Chairman Emeritus e continuerà a sedere nel Cda e nell’Executive Group. Gli attuali co-ceo David M. Rubenstein e William E. Conway, Jr. diventeranno Co-Executive Chairmen e continueranno a sedere a loro volta sia nel Cda sia nell’ Executive Group.
Si chiude, insomma, un’epoca e vale la pena di ripercorrere le tappe iniziali di questa storia. BeBeez lo fa riproponendo il testo integrale dell’intervista fatta a Daniel D’Aniello da Stefania Peveraro e pubblicata su Milano Finanza il 19 maggio 2012, all’indomani della quotazione di Carlyle a Wall Street.
“Quando abbiamo cominciato non pensavamo assolutamente che saremmo arrivati dove siamo ora. Abbiamo tenuto la testa bassa e lavorato sodo. Ci siamo impegnati soltanto per far funzionare le cose”. A parlare è Daniel D’Aniello, uno dei cofondatori di Carlyle, il colosso del private equity Usa, intervistato da MF-Milano Finanza a margine del convegno annuale della Wharton University che si è tenuto a Milano nei giorni scorsi.
In fondo la stessa cosa l’aveva detta pochi giorni prima il suo socio David Rubenstein al Washington Post: “Fare soldi non aveva mai significato nulla per me. Ero solo felice di fare le cose che mi piacevano. Ma alla fine sono finito a fare soldi”.
Insomma Rubenstein e D’Aniello sono diventati miliardari quasi per caso, assieme all’altro socio cofondatore William Conwya. I tre, nel 1987, non ancora quarantenni, hanno osato sfidare mostri sacri come Henry Kravis e George Roberts di Kkr, creando un loro veicolo d’investimento battezzato Carlyle, il nome dell’hotel di Madison Avenue a New York. Ma poi lavorando il gioco è cresciuto.
Tanto che oggi il gruppo ha in gestione circa 147 miliardi di dollari distribuiti su 141 tra fondi di private equity, di real estate, fondi di fondi e altri veicoli di investimento. Così, all’indomani dell’ipo a Wall Street a 22 dollari per azione, quel gioco ora vale oltre 1 miliardo di dollari per ciascuno dei tre cofondatori. Con 30,5 milioni di azioni sottoscritte in ipo, pari al 10% del capitale, Carlyle ha incassato 671 milioni di dollari. L’equity dell’intero gruppo è stato così valutato 6,7 miliardi (pari a 7,6 volte gli utili 2011, 881,6 milioni), il che significa appunto 1,03 miliardi di dollari per ogni quota del 15% che fa capo a Rubenstein, Conway e D’Aniello.
Domanda. Mister D’Aniello, perché avete deciso di quotare Carlyle? Che bisogno c’era?
Risposta. Era una questione di immagine. Noi abbiamo sempre detto che eravamo strutturati come una società quotata, che eravamo trasparenti e organizzati in maniera efficiente. Adesso ci siamo quotati, così è tutto alla luce del sole. Abbiamo messo in borsa solo il 10% del capitale, per noi era importante però essere in borsa. Lo abbiamo fatto per i nostri dipendenti e per i nostri investitori.D. È cambiato tanto il private equity dagli albori a oggi?
R. Direi di sì. Quando abbiamo cominciato noi c’erano davvero pochissimi e grandissimi operatori, come Kkr. Noi al confronto eravamo davvero microscopici, ma ci abbiamo provato. E abbiamo avuto fortuna perché abbiamo iniziato a investire quando le cose andavano bene e, appunto, c’erano pochi concorrenti.
D. Evidentemente avevate anche buoni agganci. Carlyle è famosa per aver portato a bordo un nutrito gruppo di ex politici eccellenti del calibro di George W. Bush, James Baker III, Arthur Levitt o John Major. E non a caso avete la sede a Washington.
R. Beh, in effetti siamo stati originali a decidere di aprire la sede a Washington. I fondi sono di solito a New York o in California. Quanto ai politici, diciamo che abbiamo colto l’occasione. Almeno per quanto riguarda quelli statunitensi. Quando a un certo punto l’amministrazione repubblicana è andata a casa, noi ne abbiamo approfittato. C’era parecchia gente interessante a disposizione. Ma ora nei nostri board abbiamo anche molti grandi manager industriali.
D. Parliamo di investimenti. Oggi è qui in Italia. Ci investirebbe?
R. Ogni investimento va considerato singolarmente. Non è necessariamente vero che, se la situazione macroeconomica di un Paese è negativa, allora non ci sono aziende interessanti nelle quali investire. E un esempio recente noi lo abbiamo avuto proprio con un’azienda italiana che avevamo in portafoglio: Moncler . È stato un ottimo investimento, ma è vero che si tratta di un’azienda che ormai fattura per la maggior parte all’estero e in particolare in Paesi emergenti come la Cina. Quindi che l’Italia di per sé cresca poco, da questo punto di vista, conta a sua volta poco. Quello che conta è che ci sono aziende in grado di crescere molto di più perché sono o tendono a essere globali. Quindi sì, in Italia ci investirei ancora.