Complessivamente, a causa della crisi innescata dall’emergenza Covid-19 e quindi delle perdite accumulate che andranno coperte, se ci sarà capienza di capitale e riserve, le imprese italiane potrebbero perdere 47 miliardi di euro di capitale, di cui 10 miliardi a causa dei default e altri 37 miliardi a causa della riduzione dei ricavi. Anzi. In uno scenario macroeconomico di previsione severo, questo valore potrebbe crescere fino a 68 miliardi (di cui 19 miliardi a causa di default e 50 miliardi a causa della riduzione di scala). Lo ha calcolato Cerved nel suo ultimo Report PMI 2020.
La situazione, quindi, apre un grande tema di finanziamento degli investimenti: quante saranno le aziende in grado di autofinanziarsi e quante quelle in grado di ricorrere ancora al debito bancario per supportare il rilancio e lo sviluppo?
Sul tema del finanziamento degli investimenti l’amministratore delegato di Cerved, Andrea Mignanelli, ha commentato: “Finora lo strumento principale è stato il credito garantito, ma la gran parte della riduzione di capitale che prevediamo, 37 su 47 miliardi di euro, sarà concentrata in imprese colpite duramente dal Covid che avranno difficoltà a finanziare gli investimenti con debito. L’iniezione di risorse nel sistema delle pmi dovrà quindi necessariamente prevedere sia finanziamenti a debito sia apporti di capitale di rischio, e un ruolo importante sarà giocato da operatori finanziari non bancari, nei quali il nostro paese mostra ancora un ritardo di sviluppo. Trasformazione digitale, distruzione e ricostituzione delle catene globali del valore, smartworking potrebbero però indurre un rapido cambiamento della struttura produttiva, con alcuni settori emergenti in espansione e altri destinati a un inevitabile ridimensionamento: sarà dunque necessario fare delle scelte su dove indirizzare le risorse”.
Le imprese nei settori maggiormente colpiti dal calo del fatturato sono quelle che, per effetto di questa diminuzione, devono ridurre maggiormente lo stock di capitale e allo stesso tempo registrano un peggioramento più marcato della situazione finanziaria (anche questa strettamente dipendente dall’andamento del fatturato). Le restanti 371 mila imprese ridurrebbero invece il capitale di 10,5 miliardi. Di queste, la gran parte (342 mila, pari al 92% di questo gruppo) potrebbero completamente rifinanziare il capitale perso (6,8 miliardi) attraverso il canale bancario e quindi non avrebbero bisogno di equity. Le restanti 29 mila società potrebbero finanziare solo una parte dei 3,7 miliardi persi (1,1 miliardi) e avrebbero quindi bisogno di 2,6 miliardi di capitale per ricostituire valore delle immobilizzazioni pre-Covid. Complessivamente, assumendo che le imprese con un rapporto tra debiti finanziari netti e Mol superiore a due non abbiano accesso al credito, sarebbero necessari 39 miliardi di euro di equity. Lo stesso esercizio condotto in uno scenario più severo indica che i fabbisogni di equity (su 68,4 miliardi di euro) sarebbero pari a 58,9 miliardi
Le imprese nei settori maggiormente colpiti dal calo del fatturato sono quelle che, per effetto di questa diminuzione , devono ridurre maggiormente lo stock di capitale e allo stesso tempo registrano un peggioramento più marcato della situazione finanziaria (anche questa strettamente dipendente dall’andamento del fatturato). Le restanti 371 mila imprese ridurrebbero invece il capitale di 10,5 miliardi. Di queste, la gran parte (342 mila, pari al 92% di questo gruppo) potrebbero completamente rifinanziare il capitale perso (6,8 miliardi) attraverso il canale bancario e quindi non avrebbero bisogno di equity. Le restanti 29 mila società potrebbero finanziare solo una parte dei 3,7 miliardi persi (1,1 miliardi) e avrebbero quindi bisogno di 2,6 miliardi di capitale per ricostituire valore delle immobilizzazioni pre-Covid. Lo stesso esercizio condotto in uno scenario più severo indica che i fabbisogni di equity (su 68,4 miliardi di euro) sarebbero pari a 58,9 miliardi
Le aziende che invece non saranno più in grado di ricorrere al finanziamento bancario a fine 2021 saranno ben 215 mila, secondo Cerved. A questa cifra si arriva tenendo presente il fatto che i bilanci previsionali delle imprese possono essere utilizzati, con opportune ipotesi, per valutare la capacità delle aziende di ricostituire attraverso finanziamenti bancari il capitale perso alla fine del 2021, quando si ipotizza che l’emergenza sanitaria sia terminata. Se si considera un rapporto tra debiti finanziari netti e Mol pari a due, una soglia considerata dalla letteratura economica come “sicura”, è infatti possibile individuare le società che a fine 2021 risulterebbero sotto tale soglia, quindi con spazi per finanziare investimenti in banca. In uno scenario soft, il 59% delle 621 mila imprese risulterebbe sotto questa soglia, con una presenza più alta di società tra quelle minori (il 65% delle micro e solo il 37% delle medie); ma le restanti 251 mila società non avrebbero invece spazi di finanziamento, perché con una redditività negativa o con debiti finanziari netti superiori al doppio dei margini lordi. Questa simulazione indica che la gran parte della riduzione del capitale, 36,7 su 47 miliardi, sarebbe concentrata proprio tra le 251 mila società senza spazi di finanziamento. Per ricostituire questo capitale, sarebbe quindi necessario intervenire almeno parzialmente con equity.
La riduzione del capitale risulterebbe differenziata, con le riduzioni più consistenti nei settori maggiormente colpiti dal calo dell’attività economica e altri comparti meno colpiti. Nei più colpiti, come logistica e trasporti, servizi e produzione dei metalli, il capitale si ridurrebbe di quasi il 10% nello scenario più favorevole con picchi del 15% in quello più severo; aziende agricole e chimica e farmaceutica subirebbero cali marginali. In termini assoluti, la riduzione più consistente di capitale, 27,6 miliardi (41,5 nello scenario più severo), è stimata nel terziario, soprattutto a causa del forte calo nella logistica e trasporti, che perderebbe più della metà di questo valore. Sarebbero necessari quasi 24 miliardi per ricostituire il valore di queste immobilizzazioni (36,8 miliardi). Nell’industria si perderebbero 12 miliardi, che potrebbero salire a 16,8 nello scenario pessimistico, con un fabbisogno di equity stimato tra i 9 e i 13 miliardi di euro. I settori che richiedono le iniezioni di capitale più consistenti sono la meccanica (2,3 miliardi nello scenario più favorevole), la siderurgia (1,8 miliardi), i prodotti intermedi (1,4 miliardi), il sistema moda (1 miliardo). Nelle costruzioni il calo sarebbe di 3,5 miliardi (5,7 nello scenario severo) e l’equity da iniettare sarebbe pari a 3 miliardi (4,8)
Questi calcoli si basano sui risultati di un esercizio di previsione di Cerved, che indicano che i ricavi delle imprese italiane si ridurranno, in media del 13,4% in termini nominali nel 2020, ma con forti differenze settoriali: cali intorno al 50% del fatturato per le società che operano come agenzie di viaggio, nel trasporto aereo, nella ricezione turistica e aumenti dei ricavi per quelle che operano nel commercio online o in settori della filiera farmaceutica. Le variazioni dei ricavi stimate sugli oltre 500 settori sono state applicate a ogni impresa italiana, per poter simulare l’evoluzione dell’intero bilancio nel 2020 e nel 2021.
In particolare, sono state stimate le relazioni fra le principali voci di bilancio, sulla base delle relazioni storiche, tenendo conto della diversa struttura dei costi e della diversa composizione dell’attivo e del passivo di stato patrimoniale per settore. Dal lato dell’indebitamento, sono stati integrati i dati del Fondo Centrale di Garanzia sui finanziamenti richiesti dalle PMI nei mesi da gennaio a settembre 2020 (ultimo dato disponibile); non sono stati imposti limiti al livello di indebitamento, per tener conto dell’effetto dei fondi messi a disposizione delle aziende in difficoltà temporanea. Il modello include anche le ipotesi di politica monetaria ultra espansiva, con una dinamica del costo del debito (oneri finanziari / debiti finanziari) ancora in discesa. Si ipotizza anche che tutte le imprese non distribuiscano dividendi nell’anno e non facciano aumenti di capitale. Le variazioni attese dei ricavi sugli oltre 500 settori sono alla base anche dell’indice CGS Impact, che Cerved ha sviluppato per aggiornare i modelli di rischio al quadro post-Covid.
L’impianto del CGS Impact prevede una serie di passaggi successivi. Il primo è la definizione di ipotesi di scenario, che si concentrano soprattutto sull’evoluzione della pandemia in termini di severità, durata e necessità di misure di lockdown e sull’entità ed efficacia delle misure di sostegno economico messe in atto dai governi. Sulla base di queste ipotesi sono elaborate le previsioni delle principali variabili macroeconomiche che, in successione logica, forniscono un input per i modelli di previsione dei tassi di ingresso in sofferenza per cluster geosettoriale e dei ricavi per microsettore. (sui tassi di ingresso in sofferenza e di deterioramento del credito secondo l’ultimo Rapporto Cerved-ABI, si veda altro articolo di BeBeez). Questi dati forniscono la valutazione complessiva della difficoltà dello specifico contesto in cui l’impresa si trova ad operare. L’impatto sul profilo di rischio individuale tiene poi conto delle caratteristiche specifiche della singola azienda, in termini di solidità, resilienza e flessibilità operativa.
I dati mostrano che allo scoppio della pandemia le pmi italiane erano più solide, più patrimonializzate, con un minor livello di indebitamento e un ridotto peso degli oneri finanziari sui conti economici di quanto lo fossero mai state in passato. In particolare a fine 2019 si confermava la quota di imprese in area di sicurezza (58,9% contro il 58,5% del 2018) e in area di rischio (11% contro 11,2% del 2018). Tuttavia l’emergenza Covid ha avuto un impatto negativo rilevante: nel 2020 raddoppia la percentuale di imprese in area di rischio, che passa dall’8,4% ad oltre il 16%, e si riduce, specularmente, la percentuale di imprese nell’area della sicurezza, che scende dal 32,6% di fine 2019 al 14,5% attuale. A fine 2019 si contavano quattro pmi sicure per ogni pmi a rischio. Con la pandemia, questa proporzione si inverte, e le pmi sicure sono meno numerose delle pmi a rischio.
Il peggioramento del profilo di rischio caratterizza tutte le dimensioni di impresa, anche se con intensità diverse. Le medie imprese presentano un aumento relativamente più elevato della quota di aziende in area di rischio e una riduzione più pronunciata della quota in area di sicurezza. Le piccole società confermano tuttavia profili più fragili, con la quota di imprese rischiose che sale al 16,7%, rispetto all’8,7% dell’anno precedente. A differenza di quanto vediamo per le piccole e le medie, in cui le imprese a rischio superano le società sicure, la distribuzione delle grandi imprese rimane fortemente concentrata nell’area della sicurezza, con circa quattro sicure per ogni impresa a rischio. Anche in questo caso, il CGS indica un forte ridimensionamento dell’area di sicurezza, che passa dal 55% al 35%, con l’area di rischio che più che raddoppia la sua quota (dal 4% al 9%).
Gli impatti sul rischio delle pmi sono stati valutati anche su uno scenario alternativo peggiore (worst), in cui si è ipotizzata la necessità di ulteriori misure di lockdown, con il completo arresto di interi settori, anche se di durata più breve rispetto a quello della scorsa primavera. Gli effetti di ulteriori misure di lockdown sarebbero estremamente pesanti per il rischio di default: la percentuale di pmi in area di rischio in questo caso crescerebbe fino al 21,8%, con un ulteriore aumento di cinque punti, contro l’8,4% della situazione ante Covid. Parallelamente, si ridurrebbe ulteriormente la quota di pmi in area di sicurezza, che passerebbe dal 32,6% di fine 2019 al 10,4%. Quindi, se a fine 2019, la proporzione era di quattro pmi sicure a fronte di una pmi a rischio; a fine 2020, nello scenario più pessimistico, questo dato sarebbe ribaltato, con ben due pmi a rischio per ogni pmi sicura. L’ulteriore deterioramento del profilo di rischio è comune a tutte le dimensioni di impresa. Ha tuttavia un’intensità maggiore per le piccole e medie imprese, in cui è più marcata sia la riduzione delle PMI in area di sicurezza sia lo speculare aumento dell’area di rischio. Le cause di queste differenze sono ascrivibili soprattutto alla maggiore solidità e resilienza delle grandi imprese, maggiormente in grado di fronteggiare contesti critici. A fine 2019, quasi un terzo delle piccole imprese aveva una valutazione in area di sicurezza. Nello scenario worst questa quota scende sotto il 10%. Per le medie imprese, la quota di imprese sicure crolla dal 43,6% al 14,6%. Le grandi imprese sono molto più resilienti: circa la metà delle imprese in area di sicurezza riesce a mantenere lo stesso profilo di rischio. Cresce la percentuale di imprese a rischio, che per le piccole imprese passa dall’8,7% al 22,5% e per le medie dal 6,6% al 18,4%. Anche per le grandi si stima un incremento di analoga portata, dal 4% all’11,3%.