Per rafforzare e ammodernare le infrastrutture italiane servono capitali, tanti. Le cifre sono piuttosto impietose, del resto. Secondo il G20 Global Infrastructure Outlook, l’Italia sconta un gap molto consistente, stimato in 310 miliardi di euro fino al 2040 rispetto alle risorse disponibili oggi. Per la Spagna, per esempio, il gap è di 50 miliardi, per la Germania meno di un miliardo. È quindi del tuto evidente che attrarre capitali privati verso il mercato delle infrastrutture è un elemento imprescindibile, essendo le risorse pubbliche non sufficienti.
Hanno spiegato in un intervento sul Corriere della Sera Andrea Montanino e Giancarlo Scotti, rispettivamente direttore strategie territoriali e impatto e direttore del ramo immobiliare di CDP: “il mercato dei capitali alternativi destinato alle infrastrutture ha ancora poche risorse rispetto alle disponibilità nei nostri partner europei. Se in Francia i capitali privati in gestione per finanziare infrastrutture ammontano a 50 miliardi di euro, in Italia ci si ferma a 7,5 miliardi (dati 2020)”. E hanno aggiunto: “Gli operatori italiani poi sono piccoli: in media ciascuno di loro gestisce un miliardo di euro. Questo numero rende complesso investire e acquisire la gestione di grandi infrastrutture che richiedono varie fasi di apporto di capitale nel tempo. Infine i fondi italiani hanno una bassa propensione a investire in progetti greenfield, completamente nuovi: quasi la metà degli operatori esclude dal proprio regolamento la possibilità di fare questo tipo di investimento, rispetto a meno di un quarto dei fondi tedeschi i spagnoli”.
Per tutte queste ragioni Cassa Depositi e Prestiti ha recentemente creato il Fondo di Fondi Infrastrutture e Sostenibilità, un veicolo finanziario che opera sia investendo in operatori di mercato specializzati nell’acquisire quote di asset infrastrutturali, sia co-investendo con gli operatori.
Fanno sapere gli esperti: “si vuole agire attraverso il mercato in modo addizionale e complementare per proseguire tre finalità principali”.
La prima è sostenere la crescita degli asset manager infrastrutturali sia attraverso l’investimento in operatori promossi e gestiti da team nuovi che spesso hanno difficoltà a raccogliere capitali sul mercato, sia puntando a creare qualche operatore di dimensione paneuropea.
La seconda è sviluppare infrastrutture sostenibili e che rispondano alle esigenze delle prossime generazioni: la transizione energetica, l’economia circolare, la salvaguardia del territorio, la tutela delle risorse idriche, le infrastrutture per la logistica e per la digitalizzazione sono tutti elementi che faranno la differenza tra un’economia sostenibile nel tempo da un punto di vista economico da una sempre fragile e volatile. La componente infrastrutturale di tutti questi elementi trasformativi è essenziale: non esiste transizione energetica senza le adeguate infrastrutture di trasporto o di stoccaggio, non si tutela la risorsa idrica se non si ammodernano acquedotti e dighe, l’economia circolare è incompleta se non si hanno le infrastrutture che evitino che il materiale non riutilizzato vada in discarica.
La terza è catalizzare risorse di investitori istituzionali. È noto che fondi pensione, casse previdenziali ma anche assicurazioni investono mediamente meno in economia reale di quanto facciano analoghe istituzioni degli altri Paesi del mondo. “Riteniamo che avere a disposizione uno strumento finanziario che opera a mercato ma con una missione istituzionale capace di orientare i fondi verso opere sostenibili e capaci di generare esternalità positive sull’economia italiana, con la possibilità di investire direttamente in infrastrutture ad alto impatto, sia oggi necessario per coniugare sostenibilità ambientale e sostenibilità economica”, hanno concluso.