“L’anomalia italiana non sta nella ricerca, ma nella sua trasformazione in valore economico e sociale”. Così Giampio Bracchi, presidente emerito della Fondazione Politecnico di Milano, in occasione del workshop “Il sostegno finanziario alla valorizzazione della ricerca”, svoltosi ieri al Museo della Scienza e della Tecnica di Milano nell’ambito di InnovAgorà, la tre giorni dedicata ai brevetti e all’innovazione della ricerca italiana. Bracchi ha precisato che gli investimenti venture capital formale in Italia nel 2018 sono stati superiori a 300 milioni di euro (si veda altro articolo di BeBeez), ma se si aggiungono gli investimenti informali (club deal, business angel, investitori privati), il loro importo raddoppia a 600 milioni.
Abbiamo inoltre segnali positivi di maturazione del venture capital italiano. Alessandra Bechi, vicedirettrice di Aifi, ha ricordato: “Qualcosa si è mosso nel venture capital, con volumi importanti di investimenti su 110 imprese. Ora gli operatori si stanno articolando con specializzazione settoriale, il che è un segno di maturità del mercato. Ad esempio, è in dirittura di arrivo un nuovo fondo sulle malattie rare, in via di autorizzazione da parte di Banca d’Italia”.
Nel 2018 alcune imprese hanno catalizzato round record, come Moneyfarm e Prima Assicurazioni, segnalando così la crescita del venture capital italiano. Un boom che era già stato ben evidenziato dal Report BeBeez sul venture capital 2018 (disponibile qui per i lettori di BeBeez News Premium 12 mesi, scopri qui come abbonarti a soli 20 euro al mese).
Un altro ottimo segnale per il settore sta nel fatto che i fondi internazionali si stanno interessando ora anche all’Italia, mentre prima accadeva solo per il private equity. I settori più promettenti sono: biotech, medicale, robotica, spazio, made in Italy. Stanno spuntando anche gli operatori di corporate venture capital, ossia imprese che creano o investono in fondi di venture capital per tenere d’occhio opportunità e imparare a riconoscere quelle buone.
“Resta il fatto che, in valore assoluto, i nostri investimenti in venture capital sono una ancora una frazione rispetto a quelli di tutti gli altri paesi europei, inclusa la Spagna, che investe 6 volte più di noi. Questo anche perché i fondi di venture capital sono una ventina, mentre negli altri paesi europei sono un centinaio”, ha ricordato Bracchi (si vedano qui i dati europei 2018 appena pubblicati da Invest in Europe) . “La partita dell’innovazione non si può giocare a pezzi. Ma forse è proprio quello che stiamo facendo”, commenta il presidente emerito della Fondazione Politecnico di Milano. Vero è che ci sono state numerose piccole iniziative di innovazione per le startup a livello locale con finanziarie regionali, camere di commercio, fondazioni bancarie, premi per le startup. Tuttavia, mancano ancora iniziative organiche a livello nazionale. Tra le iniziative più importanti, Bracchi ha ricordato: il Fondo Italiano di Investimento, con i suoi due fondi di fondi di venture; la piattaforma ITATech promossa da Fei (Fondo europeo per gli investimenti) e Cdp (Cassa depositi e prestiti) a fine 2016, versando 100 milioni di euro ciascuna (si veda altro articolo di BeBeez).
A oggi la piattaforma ITATech ha chiuso quattro investimenti per un totale di 160 milioni di euro impegnati: quello da 40 milioni in Progress Tech Transfer, quello in Vertis Venture 3 Technology Transfer di Vertis sgr; quello nel fondo dedicato al biotech italiano, con focus su startup specializzate nella lotta alle malattie genetiche rare, lanciato dal colosso del venture capital francese Sofinnova, con la charity biomedica Telethon come advisor; e quello in Poli360, il fondo lanciato da 360 Capital Partners per sostenere l’innovazione tecnologica prodotta dalle competenze del Politecnico di Milano.
Thomas Kusstatscher, senior advisor della Bei (Banca Europea degli Investimenti), che detiene il 60% dei Fei (il 30% è in mano alla Commissione europea e il 10% a banche private), ha svelato che il Fei ha approvato di recente un investimento da 30 milioni in Astra Ventures, il fondo per investire nella space economy gestito da Primomiglio sgr e promosso da Asi e Fondazione E. Amaldi (si veda altro articolo di BeBeez). Il Fei inoltre ha in pipeline altre operazioni, in via di chiusura.
Recentemente il Ministro del Lavoro Luigi Di Maio ha annunciato un Fondo nazionale per l’innovazione gestito da Cdp e un fondo di sostegno presso il Mise, oltre a nuovi incentivi fiscali per investire in startup e in venture capital (si veda altro articolo di BeBeez). A questo proposito, Bechi auspica che il Fni sia attuato in modo indiretto tramite l’investimento fondi, anziché in modo diretto, mettendosi in competizione coi fondi privati.
In Italia la legislazione dal punto di vista degli incentivi per chi investe è abbastanza avanzata, ma il problema sono le iniziative imprenditoriali valide dove investire e brevetti con potenziale di mercato. “Dalle università non arrivano grandi flussi di brevetti e prototipi e nemmeno startup dalle grandi aziende tecnologiche italiane. Abbiamo inoltre dei problemi costituiti dalla burocrazia e dalla cultura del paese (più orientata alle procedure da seguire che ai risultati da ottenere), oltre che dalle strutture (non) presenti nelle università”, ha spiegato Bracchi. Infatti, nella maggior parte degli atenei e degli enti di ricerca italiani, chi produce ricerca corrisponde con chi la vende, mentre nelle università americane esistono delle strutture ad hoc per formare le startup, fare trasferimento tecnologico alle aziende, commercializzare i brevetti e le ricerche. In Italia, il Politecnico di Milano ha creato la Fondazione Politecnico di Milano per fare il trasferimento tecnologico delle idee nate nei laboratori o nelle startup nate al suo interno e l’incubatore PoliHub che fa scouting interno sulle iniziative imprenditoriali nate in università.
“Servirebbe un fondo di PoC (proof-of-concept) a livello nazionale, oltre che un rafforzamento delle strutture di scouting e promozione delle invenzioni all’interno delle università”. Ne è convinto Giuseppe Conti, vicepresidente di Netval, un network informale nato nel 2002 e diventato associazione nel 2007, che si occupa di trasferimento tecnologico. Conta 79 membri tra università ed enti di ricerca, coprendone l’85%. In Netval oltre 350 persone lavorano in istituzioni nel trasferimento tecnologico nella sede operativa presso l’Università di Pavia. Il sistema italiano è molto disomogeneo e polarizzato, con 5 istituzioni che hanno in mano il 60% dei 2,8 milioni di contratti di trasferimento tecnologico e il Politecnico di Milano che detiene il 40% degli oltre 5.300 brevetti pubblici. La maggior parte del mercato dei brevetti (il 90%) non interessa all’industria, riferisce Silvano Coletti, Managing Director di Chelonia SA, una società svizzera con sede a Basilea che supporta la ricerca di base e applicata per fare open innovation, collaborando con università svizzere e internazionali e coprendo proprio la parte di mercato dei brevetti che non interessa all’industria. “Il loro valore spesso non è riconosciuto dalle imprese perché gli scienziati hanno una diversa forma mentis e non hanno una roadmap con i milestone del progetto, che servono agli investitori per capire quando finanziare le startup”.
Per aiutare le idee e le invenzioni a trasformarsi in innovazione, prima dei fondi di venture capital spesso intervengono i business angel. Filippo Zanetti, consigliere delegato di Iban (Italian Business Angel Network, che raggruppa tutte le entità territoriali che hanno deciso di supportare crescita delle startup con investimenti), ha ricordato che in Italia sono presenti 300-500 business angel, che in un anno investono attorno ai 29 milioni di euro. La cifra non è altissima, tuttavia il loro ruolo è fondamentale per gli startupper perché permettono loro di iniziare a convincere persone esterne a familiari e amici a investire nelle loro imprese. Zanetti ha illustrato i fattori principali che spingono i business angel a investire in una startup: un team valido, appassionato e diversificato; la capacità di aggiustare un’idea in base ai feedback del mercato; un’idea in trend; il momentum, inteso sia come timing di mercato che come fortuna di trovare l’innovazione giusta al momento giusto. “Il nostro è un lavoro più personale e relazionale che finanziario, che nasce per dare un primo aiuto alle startup”, ha concluso Zanetti.