La mostra di Marina Ballo Charmet, Tatay, a cura di Marco Meneguzzo, in compartecipazione con il Museo degli Innocenti di Firenze presso la galleria Il Ponte sarà visitabile fino al 28 luglio. Il Ponte conclude così la stagione espositiva – prima della pausa estiva – con la personale dedicata a Marina Ballo Charmet, Tatay, letteralmente “padre” in filippino. La sua è una visione ravvicinata con il colore debordante e fuori fuoco lontana e in antitesi con la fotografia tradizionale. Se la suggestione è quella del ritratto di famiglia e della foto pubblicitaria, al centro il rapporto con il nuovo padre, una genitorialità primordiale in passato consegnata solo alla donna-madre.
Il percorso dedicato all’artista – che Bebeez ha avuto l’opportunità di visitare in anteprima con Andrea Alibrandi, titolare della Galleria Il Ponte e Susanna Fabiani, responsabile della comunicazione – si inaugura il 24 maggio al Museo degli Innocenti alle 17.30 con una tavola rotonda sulla nuova genitorialità al maschile con la presenza del professor Charmet, psichiatra e marito di Marina Ballo; seguirà la presentazione del video Tatay in cui si vede il gesto del cullare e dodici voci maschili in lingue diverse cantano la ninna nanna con un sovvertimento di un accudimento tipico femminile. Quindi alle 19.00 alla Galleria Il Ponte l’inaugurazione dedicata al risultato fotografico del progetto: una quindicina di foto inedite dove protagonista è il colore e la presentazione di un lavoro del 1994 in bianco e nero che presenta una visione per così dire orizzontale. L’inquadratura è ad altezza di bambino di quattro anni con la restituzione di una visione laterale, ‘emarginata’ che nel lavoro psicanalitico invita all’ascolto del paziente, in particolare di chi è ai margini e sollecita chi ascolta a mettersi nei panni dell’altro.
Nella videoinstallazione Tatay, progetto del quale la galleria tratta il risultato fotografico, si evidenzia come la ricerca artistica di Marina Ballo Charmet sia “una poetica e raffinata riflessione sul tema della paternità in cui suono e immagine si intrecciano e si rafforzano a vicenda per riportare a voci e gesti privati, personali, afferenti alla sfera del quotidiano, ma al contempo universali e ancestrali”, come scrive Stefano Boeri per la presentazione alla Triennale di Milano, progetto presentato poi alla Fondazione Bevilacqua La Masa nel 2022.
Un ambiente sonoro oscuro dove, come accennato, 12 voci di padri di paesi e lingue diversi cantano la ninnananna al loro bambino. Le voci si intrecciano e si susseguono a formare un’unica voce ancestrale e primordiale, che non dice ma canta e il gesto della proiezione che si ripete e si intravede nell’oscurità è quello del padre che culla il suo piccolo.
In galleria viene invece presentato per la prima volta il percorso strettamente fotografico di questa ricerca artistica, attraverso dodici fotografie a colori di grande formato, del progetto Tatay, realizzate negli ultimissimi anni. Esse afferiscono alla genitorialità maschile, alla relazione primaria padre-figlio. Spesso dettagli di aree di contatto tra il padre e il bimbo molto piccolo dove si suggerisce una intimità tattile olfattiva: il focus è sul gesto, sul particolare, su una geografia corporea non meramente fisica di grande tenerezza, al di là dell’allegria che superficialmente ci arriva. Sono mani che si intrecciano, che sostengono, che accarezzano. Visioni sempre parziali che non restituiscono l’insieme ma puntano lo sguardo sul cuore della vicenda come le braccia che sorreggono o accompagnano i primi tentativi di acquaticità in una piscina.
“In questa prospettiva, la ricerca di Marina Ballo Charmet è unica nel suo genere all’interno del panorama artistico italiano. Dimostra una profonda resilienza rispetto a qualsiasi tipo di allineamento, immaginando la fotografia come strumento di auto-educazione o ri-educazione prima di tutto alla visione stessa. Marina parla, infatti, dell’idea di fotografare come una possibilità dello sguardo, “un potere di vedere diversamente da prima il mondo, forse di vederlo come se lo vedessi veramente per la prima volta”, secondo quello che scrivono Emma Zanella e Alessandro Castiglioni. Marina Ballo Charmet dà vita a immagini inconsuete aperte a molte interpretazioni, invitando il pubblico a guardare con interesse rinnovato la realtà che ci circonda. Del lavoro storico Con la coda dell’occhio (1993-94), nel piano inferiore della galleria sono esposte sei foto in bianco e nero di grande formato, stampate ai sali d’argento, in cui i bordi della città sono visti con uno sguardo dal basso, mettendo l’obiettivo all’altezza dell’occhio di un bambino di tre o quattro anni e riprendendo da quel punto di vista il tessuto urbano, soprattutto marciapiedi, spartitraffico, sterrati, spesso trascurati. Un repertorio di immagini dove protagonista è la quotidianità, tutto ciò che ci circonda, vista di sfuggita…e priva della visione panoramica dell’adulto che ha il controllo almeno ideale sulla situazione.
“Marina Ballo Charmet rifiuta l’antropocentrismo di una visione esatta e presumibilmente oggettiva. Lo sguardo non è più una presa di distanza ma una forma di partecipazione, psichica e psicologica. Da un progetto ad un altro l’immagine, statica o in movimento, è il luogo di un’intimità sperimentale, indefinita”, scrive Jean-Francois Chevrier.
Interessanti alcuni passaggi della Conversazione fra Marco Meneguzzo, Arabella Natalini e Marina Ballo Charmet in cui viene presentato il libro Tatay per le Edizioni Gli Ori (2023) che offrono spunti suggestivi. Marco Meneguzzo sottolinea che nel film di Jean Luc Godard Le livre d’images, premiato a Cannes nel 2018 quel suo uso del colore e il modo in cui tratta le immagini gli ricorda alcune immagini dell’artista. In particolare il regista fa un uso ‘molto francese’ dell’immagine “sempre ammantata di una specie di supporto filosofico: l’uso distopico delle parole e delle figure, e poi il colore che brucia l’immagine tanto è sovraesposto e trattato digitalmente”. L’artista ha risposto. “Un colore molto forte. Volevo dei colori vivissimi e abbaglianti. È un po’ di tempo che pensavo a questa tematica, a quest’idea del padre e della relazione con il piccolo e alla fine ho deciso di fare delle immagini che avessero una grande forza visiva, e che diventassero in qualche modo come delle icone. Da un lato c’è la pubblicità dall’altro c’è la foto di famiglia e ho cercato immagini di amici e non solo, di padri coi bambini. È stato un percorso lungo e a un certo punto ho anche pensato di dipingerle sopra le fotografie, ma poi ho deciso di stare nel mio e ho scelto di non usare la pittura ma solo la fotografia, andando ad approfondire i colori. In questo percorso mi è venuto in mente di andare a rivedere l’uso del colore di Godard, i primi film ma soprattutto gli ultimi due Adieu au langage (2014) e Le livre d’image (2018). Li avevo visti a Parigi, e mi avevano molto colpito perché la sovraesposizione era proprio uno sfaldamento, e anche il colore intensissimo che Godard usa in questi ultimi lavori e la luce. Ho pensato che quello che cercavo era una cosa simile anche se nel film c’era il movimento ed era un’altra cosa. Effettivamente era importante per me cercare l’intensità del colore e la sovraesposizione e ho visto che funzionava perché venivano fuori delle immagini che non erano legate strettamente al contesto dove erano state fatte. Come spesso nei miei lavori precedenti ho trovato dei frammenti, che sono proprio delle zone di contatto dove c’è una vicinanza estrema e c’è il tentativo di riprendere qualcosa di molto forte relativo alla relazione affettiva precoce del padre col piccoletto: proprio la prima relazione. C’è anche qualcosa di ambiguo e quasi inquietante in certi casi, dato anche dall’uso dello sfaldamento del colore, della sovraesposizione e dal fuori fuoco. Cercavo un’immagine che va a toccare qualcosa che è molto profondo in noi e che è qualcosa di preconscio – come avevo anche scritto nel mio libro Con la coda dell’occhio. Scritti sulla fotografia. La fotografia che mi interessa è quella non tanto di tipo razionale, analitica e descrittiva ma quella che rimanda a un’esperienza percettiva forte.” Le differenze non mancano perché nell’artista esiste ad esempio un soggetto che non è assolutamente distopico, ed anzi è fortemente significativo, come il rapporto tra padre e figlio. Non solo ma l’immagine, se nasconde il soggetto, non lo cancella e anzi aiuta, spinge a capire meglio. Il lavoro artistico in questo caso punta sulla relazione intima che è difficilmente definibile e forse per questo l’artista dice che “il linguaggio che utilizzo e che ho utilizzato anche in precedenza, è in parte costituito dallo sfocato che non rende riconoscibile qualcosa, o almeno al primo momento. Ci sono tanti aspetti: c’è la vicinanza, il frammento, la zona, la sovraesposizione, il colore intensissimo. Col tempo e con le prove ne è uscito qualcosa che mi convince e che appartiene al non razionale. L’immagine è sempre qualcosa che va oltre, che rimanda al nostro preconscio Credo che tutti questi aspetti insieme possano restituire bene quella particolare relazione che prima del “nuovo padre” era tipicamente la relazione della madre col bambino. Si può dire che forse negli ultimi tempi è quella che appartiene al padre e al piccolo. Qualcosa di primitivo, primordiale”. Al centro del suo lavoro la relazione che è primordiale come il colore che diventa calore e non semplicemente il padre e il figlio, né tanto meno quel padre e quel figlio.
Chi è Marina Ballo Charmet
Vive e lavora a Milano, dove nasce nel 1952. Laureata in filosofia, con successiva specializzazione in psicologia,
lavora come psicoterapeuta infantile. Negli anni Settanta del Novecento realizza filmati in video per il Comune di Milano e Rai 3 e pubblica un libro sulla separazione precoce del bambino dalla famiglia. Parallelamente al lavoro psicanalitico (opera come psicoterapeuta nei servizi territoriali pubblici di Milano), dalla metà degli anni Ottanta si dedica anche a ricerche sui linguaggi della fotografia. Il quotidiano, il “sempre visto” che lei stessa definisce “il rumore di fondo della nostra mente” è il suo soggetto privilegiato. “Adotta una sguardo caratterizzato da una mobilità percettiva e dal fuori fuoco, laterale o dal basso – tipico della condizione infantile – che restituisce una visione fluttuante”, una “percezione periferica legata al nostro preconscio”.
Tra le mostre personali: Marina Ballo Charmet, Walter Niedermayr. Out of Sight, Fondazione Bevilacqua La Masa, Venezia (2022); Tatay, Triennale (videoinstallazione), Milano (2021); Fuori campo, Istituto Italiano di Cultura, Madrid (2019); Au bord de la vue, Le Point du Jour, Cherbourg (2019); Museo MAGA Gallarate (2018); Bleu du Ciel, Lyon (2018); milanopiazzaduomo (con Gabriele Basilico), Museo del Novecento, Milano (2015); Sguardo terrestre, MACRO (Roma, 2013); At Land. Bodyscape & Cityscape, Storefront for Art and Architecture, New York (2009); Il Parco, Triennale di Milano (2008); Marina Ballo Charmet, Centre National de la Photographie, Paris (1999).
Ha partecipato alla XII Mostra Internazionale di Architettura Biennale di Venezia nel 2010 e alla XLVII Biennale d’Arte di Venezia nel 1997.
Ha pubblicato diversi libri e cataloghi tra i quali Urv-àra, Segnature 21 (2021); Con la coda dell’occhio. Scritti sulla fotografia, Quodlibet (2017); Out of the corner of my eye. Writings on photography, Quodlibet (ed. inglese, 2021); Au bord de la vue. Linee biografiche, Danilo Montanari Editore (2018); Sguardo Terrestre, MACRO-Quodlibet (2013); Oracoli, santuari e altri prodigi. Sopralluoghi in Grecia, Humboldt-Quodlibet (2013); Il parco, Charta (2008), Marina Ballo Charmet, Fotografie e video 1993/2007, Electa (2007); Primo campo, Le Point du jour Éditeur (2004); Rumore di fondo, Art& (1998); Con la coda dell’occhio, Art& (1995); Il limite, Associazione Culturale Italo Francese, Bologna, Bari (1992).
a cura di Ilaria Guidantoni