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Quando il vino diventa il filo conduttore della tessitura di un’attività economica con un risvolto ad ampio spettro culturale, attento a bilanciare la produzione vinicola, il valore del marchio, e la ricettività dove al centro c’è sempre l’idea dell’esperienza e della degustazione. Tutto ruota dunque intorno ai vigneti che diventano un palcoscenico per manifestazioni culturali variegate.
Albola è un piccolo borgo a due passi da Radda in Chianti, nella parte orientale del Chianti Classico, i cui primi insediamenti risalgono al Medioevo (la Torre e il Cassero, del XII secolo), mentre la villa padronale, che è identificativa del luogo, presente nelle etichette, con la chiesetta tuttora consacrata e il giardino elegante con le statue, quasi un unicum nella zona, sono di epoca rinascimentale.
Proprietà degli Acciaioli, che gli hanno conferito questo volto, è passata nel tempo dalle mani di diverse famiglie nobili, quali i Samminiati, i Pazzi e in ultimo il principe Giovanni Ginori Conti dal quale la famiglia Zonin l’ha acquistata nel 1979, segnando l’entrata di Albola nel Gruppo Zonin 1821.
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La zona di Castello di Albola è ufficialmente menzionata come “terra vocata alla viticoltura” in un documento conservato presso l’Archivio di Stato di Firenze, che testimonia l’acquisizione della proprietà da parte degli Acciaiuoli nel 1480, firmato da Niccolò Acciaiuoli. Alla fine del ‘400 Lodovico Acciaiuoli, che aspirava ad espandere i possedimenti chiantigiani essendo un “insigne dottore cittadino e avvocato fiorentino”, fonda di fatto il possedimento di Pian d’Albola come lo conosciamo oggi.
L’origine di Albola, lì dove la Pesa ha le sue sorgenti, però sfuma nel mito della civiltà protovillanoviana ed è certo che il toponimo abbia origine etrusca. Le prime fonti della storia di Albola legate alla cultura vitivinicola si trovano nel Dizionario fisico geografico del Granducato di Toscana (1841) di Emanule Repetti, importante geografo, storico e naturalista italiano, che cita: “Chiamasi propriamente Albola una piaggia accreditata per i suoi vigneti, dai quali si ottengono forse i migliori vini del Chianti”. In realtà di Albola si parla molto prima e questo territorio venne citato per la prima volta in documenti risalenti all’XI secolo: in un documento datato 1010 l’Arcivescovo di Milano Arnolfo II concesse a un tale Gerardo l’affitto per la coltivazione di dieci mansi di proprietà della chiesa milanese. La diocesi tenne in possesso queste terre per circa tre secoli. Poi se ne conosce la dipendenza dalla Badia di Coltibuono.
Questa in sintesi la storia di un piccolo gioiello nei secoli che oggi con vigneti che vanno da un’altitudine di 450 metri sul livello del mare ai 680 (per questo che i vini prodotti in questa Tenuta sono definiti Wines of Altitude) e si estendono su un territorio di 900 ettari di cui 110 vitati (ben 100 ettari DOCG), attualmente diretto da Alessandro Gallo, enologo dell’azienda, che si avvale della consulenza enologica di Giuseppe Caviola, un piemontese del Monferrato che da vent’anni si è trasferito in Toscana.
Nato con il vino nelle vene, visto che il nonno produceva vino ad Acqui Terme, dove tuttora mantiene una piccola produzione familiare, è cresciuto con la passione per la vigna prima che per la cantina e ha studiato alla Scuola enologica Alma, per quindi si è laureato in chimica a Torino.
Nel 2004 l’incontro con Zonin è una scintilla che incendia l’animo di Alessandro e lo porta a trasferirsi tra i cipressi diventando amministratore di una società del Gruppo oltre che di Rocca di Monte Massi nell’entroterra di Castiglione della Pescaia, in Maremma, dove accanto all’attività vinicola Vermentino e ai vitigni internazionali ha dato vita a un Museo agricolo che raccoglie 3mila “pezzi”.
Il Castello di Albola gode dell’altitudine che soprattutto con i cambiamenti climatici sta diventando un vantaggio per la vigna, qui si coltiva soprattutto Sangiovese, il principe di Toscana, su 100 ettari, Chardonnay e Cabernet Sauvignon, e per gli ospiti di quello che possiamo considerare un albergo diffuso e che ambisce a essere un borgo diffuso dove attualmente si contano 25mila presenze all’anno.
L’attività ha il cuore nella produzione che vede Sangiovese in purezza, Chardonnay di altura (Poggio Le Fate), un Super Tuscan singolare, l’Acciaiolo, in omaggio alla storia, Cabernet Sauvignon, quindi cinque etichette di Chianti Classico (Classico Annata, Riserva e tre single vineyard, quali Solatìo, Santa Caterina e Marangole, solo per il Castello, non in distribuzione) e l’anima in percorsi di degustazione e intrattenimento culturale di ampio respiro.
Quest’ultimo progetto è partito nel 2020 ancora in piena pandemia con una certa diversificazione, da concerti di musica leggera a concerti di musica classica con l’Accademia di Musica di Siena, a spettacoli teatrali (prossimamente uno spettacolo di Ginevra Fenyes e di Vittorio Pettinato) a proiezioni cinematografiche abbinate a menu tematici a mostre di pittura allestite nella barricaia, nelle cantine storiche sotterranee.
Dialoghi paralleli è in tal senso un titolo emblematico di due mondi che si sfiorano, fatti di passione, di sogno e di artigianato, quello del vino e dell’arte. Il concetto esprime una profonda chiave di interpretazione della contemporaneità: sono “Dialoghi paralleli” tutte quelle conversazioni, diverse tra loro, che nel loro percorso si susseguono senza mai perdere la propria unicità; tutti quei confronti che grazie alla propria vicinanza si arricchiscono ma non disperdono la voce del proprio interlocutore. La prossimità continua data dal parallelismo, qualunque esso sia, è simbolo di rispetto, reciprocità ed apertura. La mancanza di intersezione, tipica dei parallelismi, ha un forte significato simbolico: non è mancanza di incontro ma confronto costante lungo tutto il cammino.
La scorsa edizione ha visto protagonisti l’artista di Certaldo, il paese di Giovanni Boccaccio, Fabio Calvetti il cui filo rosso nella ricerca sono l’attesa, l’assenza, i silenzi dell’anima, uno spazio vuoto prolifico di domande e un artista albanese, Armand Xhomo, che ha lavorato come scenografo in vari teatri e ha svolto il ruolo di grafico pubblicitario per un’importante azienda; due personalità che hanno in comune un’idea di pittura saldamente ancorata ai valori formali ed espressivi della figurazione. “Mentre Calvetti, infatti, si è concentrato sulla dimensione soggettiva e interiore della pittura”, scrive Daniela Pronestì che ha curato il testo critico del Catalogo della mostra, “con un linguaggio dai toni intimisti, meditativi, talvolta anche melanconici, e una tavolozza che alterna tinte scure e terragne a bianchi lattiginosi e rossi vermigli, Xhomo, al contrario, manifesta un’attitudine creativa più “energica”, vitalistica, vocata all’impeto del gesto pittorico, con un ribollire di colori a colmare lo spazio della rappresentazione e un continuo fluire di visioni che spaziano dall’umano al ferino”.
L’edizione 2024 che vedrà due artisti francesi, i cui nomi sono ancora riservati, sarà inaugurata il 7 settembre prossimo e resterà allestita fino al 31 dicembre, promuovendo un dialogo internazionale. Come il vino del Chianti è un ambasciatore della Toscana nel mondo, non solo per il gusto quant’anche per lo stile e la vita legata alla campagna e alla dimensione di sostenibilità, cara al Castello di Albola, così la regione diventa il palcoscenico dell’arte internazionale che da sempre ha trovato a Firenze e nei suoi dintorni una culla di civiltà e di ispirazione.
a cura di Mila Fiorentini