Filippo de Pisis. L’illusione della superficialità; Giulio Paolini. Quando è il presente?; e Luca Vitone. D’après (De Pisis – Paolini) fino al 7 settembre 2022 al Museo Novecento di Firenze. Tre mostre, tre artisti, tre generazioni a confronto in un gioco di incastri e rimandi fatto di coincidenze iconografiche, strategie concettuali e passioni artistiche e letterarie: un gioco di rimandi in un dialogo a tre voci, all’interno di un progetto espositivo che conferma la vocazione di questo Museo, come ha sottolineato il direttore Sergio Risaliti, a presentare un viaggio nelle opere e non solo un’esposizione di opere.
La nuova stagione di mostre propone un progetto espositivo sorprendente e del tutto originale, che consente di approfondire la conoscenza di tre artisti apparentemente molto diversi tra loro, rileggendone la produzione a partire da una prospettiva inedita. Tre mostre personali, separate ma interconnesse, che danno vita a un gioco di specchi e di confronti tematici.
L’espressione, suggerita da Giulio Paolini, “tre per uno”, rende bene il legame nello spirito del progetto di creare un luogo contenitore di cultura e di contaminazione.
La mostra Filippo De Pisis. L’illusione della superficialità, nata da un’idea di Sergio Risaliti, a quanto ci ha raccontato vent’anni fa, co-curata con Lucia Mannini e organizzata in collaborazione con l’Associazione per Filippo De Pisis, ospita oltre quaranta opere del pittore e letterato ferrarese al primo piano del Museo Novecento e presenta una lettura inedita di questo artista. Una prospettiva diversa, anche per gli stessi studiosi di questo artista come Paolo Campiglio, che valorizza il portato pittorico di un artista tutt’altro che superficiale, come notò lo scrittore Elio Vittorini. Conosciamo della sua arte soprattutto le nature morte con i fiori, le sue
pennellate veloci, molti lavori degli anni Quaranta del Novecento ma in mostra un ‘quasi inedito’, recuperato dall’Associazione per Filippo De Pisis, apre un varco. E’ Il saluto per l’amico lontano che recupera un dipinto di Giorgio De Chirico, lo cita anzi lo riproduce, che era dedicato a un amico lontano; lo firma con Giorgio De Chirico e Alberto Savinio e lo dedica appunto, forse ad Apollinaire. Interessante è che si svela il gioco, complesso, di rimandi, come in una serie di dipinti dopo non c’è la citazione ad esempio di opere di De Chirico ma il riflesso di sue opere perché De Pisis ad un certo punto ha abitato lo studio che era stato del primo e dove c’erano delle opere dell’artista greco. Dalla
mostra emerge l’atmosfera nella quale De Pisis ha vissuto, il suo studio, pieno di oggetti – era un accumulatore seriale di oggetti, diremmo oggi – il suo fantoccio, il culto per la fotografia, l’amore per i tarocchi con la carta del matto che cerca farfalle e in cui si riconosce. Soprattutto se De Pisis ci è – mi è – spesso apparso melenso un po’ fané, ecco che così esposto acquista carattere, grazie anche all’opera di Luca Vitone che lo avvolge, una sorta di carta da parati sui toni del grigio che riproduce una foto con De Pisis nel suo studio, creando un gusto retrò di carattere. Davvero suggestivo.
Accusato spesso di perseguire una pittura dalla “superficialità decorativa” di matrice neo-impressionista – per via della pennellata rapida e leggera e dei piacevoli accostamenti cromatici – De Pisis ha invece costruito molti dei suoi maggiori dipinti tramite un gioco di rimandi e riferimenti, autobiografici e culturali. L’esposizione, nata da un’attenta rilettura della critica, a partire da Francesco Arcangeli fino a Paolo Fossati, intende sottolineare questa complessità attraverso un’attenta e studiata selezione di opere nelle quali l’artista ha adottato espedienti che anticipano, in fondo, quelli dell’arte concettuale degli anni Sessanta. La magica e misteriosa sospensione tra realtà e irrealtà è protagonista delle nature morte di De Pisis anche quando è una tela vuota a sollecitare nell’osservatore una riflessione, invitandolo a indagare più in profondità il senso delle cose esibite in un dipinto e andando oltre la piacevolezza visiva della sua pittura.
Qualcosa accomuna il percorso artistico di Filippo Tibertelli de Pisis (Ferrara, 1896 – Milano 1956), eclettico pittore e letterato ferrarese, e quello di Giulio Paolini (Genova, 1940), uno dei grandi protagonisti dell’arte italiana e internazionale dagli anni Sessanta ad oggi. Le loro opere funzionano come rebus e allegorie, gli oggetti e gli elementi che compongono il loro repertorio visivo vanno decifrati per entrare nel gioco misterioso e spiazzante dell’arte, il cui significato ultimo rimane comunque inafferrabile. Molti dei lavori sia di De Pisis sia di Paolini sono un continuo andare e venire nella storia dell’arte. Ecco allora invocate opere di autori appartenenti ad epoche passate o contemporanee: quadri all’interno di quadri, catene di riferimenti iconografici e di amori figurativi, che vanno da Poussin a Chardin, da El Greco a Goya, da De Chirico all’arte classica. Se in un dipinto di De Pisis scopriamo evocate le fattezze di Antinoo, in Paolini il canone di bellezza classica ritorna attraverso un calco in gesso di una scultura di Policleto. Pur appartenendo a due stagioni dell’arte distanti, nei due artisti si riscontrano molteplici assonanze. Come in De Pisis, anche in Paolini presentare lo studio dell’artista o gli strumenti del pittore, è un modo per parlare del gioco dell’arte e del mondo delle immagini. Nelle loro opere De Pisis e Paolini combinano ricordo e memoria, leggerezza e malinconia, eludendo costantemente la cronaca e l’appiattimento sulla realtà fenomenica. Non ultimo, è importante notare come entrambi abbiano affidato il proprio immaginario e i propri sentimenti e pensieri alla scrittura, in particolare alla poesia.
Tra i grandi maestri dell’arte italiana del Novecento, Giulio Paolini è il protagonista di un progetto espositivo inedito, che riunisce opere della sua produzione più recente in dialogo con l’architettura rinascimentale delle sale al piano terra del Museo Novecento. Il titolo della mostra, Quando è il presente?, a cura di Bettina Della Casa e Sergio Risaliti, è ripreso da una lettera scritta nel 1922 da Rainer Maria Rilke a Lou Andreas Salomè, da cui Giulio Paolini trae spunto per condurre una propria meditazione sul tempo e sulla nostra impossibilità di afferrarlo, combinando gli interrogativi sul ruolo dell’arte e la figura dell’artista con quelli sull’esistenza e il suo fluire. Come sempre nella sua produzione, Giulio Paolini ricorre a un vasto repertorio di riferimenti letterari, mitologici e filosofici, richiamati attraverso la riproduzione fotografica, il collage e il calco in gesso, cui fanno da pendant allestimenti articolati e compositi, imperniati su citazioni, duplicazioni e frammentazioni, per dar vita a un teatro dell’evocazione. I lavori di Paolini chiamano in causa gli strumenti del fare artistico, la figura dell’autore e il suo rapporto con l’opera e con l’osservatore, in una ricerca che trae nutrimento dalla storia stessa dell’arte: dalla nascita della prospettiva rinascimentale alla sopravvivenza del mito nell’iconografia, fino al perpetuarsi dei modelli classici e al ritorno della sospensione temporale tipica della metafisica di de Chirico. La mostra, a piano terra, presenta nel centro della sala un’installazione realizzata ad hoc che riproduce il suo studio creando una sorta di opera nell’opera, senza l’artista, sebbene più presente che altrove. E’ forse la prima volta che Paolini inserisce un punto di vista autobiografico, con una nota crepuscolare: la poltrona del suo studio, il tappeto non completamente disteso, un drappo di stoffa che riproduce la stanza. Sulla poltrona un libro senza testo scritto con una matita allude alla presenza dell’autore che si è allontanato e guarda un grado di un certo Garino (che appartiene alla casa della moglie) e che riproduce un pittore di spalle che dipinge, nella stessa posizione. Pieno di dettagli, denso questo lavoro più che mai. Alle pareti opere che richiamano invece l’artista schermato, quasi nascosto dietro i suoi lavori, in frac, come un valet de chambre che offre qualcosa restando al di fuori. Lo stesso Paolini ha più volte dichiarato il suo amore incondizionato per il Beato Angelico, eleggendo il Museo di San Marco di Firenze a suo museo ideale. In occasione di questa mostra, l’artista torinese ha realizzato un collage incorniciato allestito su un cavalletto, ispirato al celebre affresco del Noli me tangere conservato all’interno del convento di San Marco. L’opera sarà esposta proprio all’interno della cella omonima di fronte al dipinto del frate domenicano.
Insieme, De Pisis e Paolini costituiscono due importanti riferimenti per Luca Vitone, che entra nella costruzione del progetto espositivo continuando questa mise en abyme con una serie di opere site-specific all’interno della mostra D’après (De Pisis – Paolini). Mentre un dipinto di De Pisis dà modo a Vitone di elaborare una scultura olfattiva il cui profumo pervade una stanza del museo, opera realizzata in collaborazione con Maria Candida Gentile e ispirata alla tela Il gladiolo fulminato, conservato a Ferrara e volutamente non presente in mostra, nell’altro caso Vitone ha recuperato dallo studio di Giulio Paolini della polvere, diventata materiale pittorico per realizzare un acquarello che attraverso questo espediente vuole mettere in scena l’atelier dell’artista. L’operazione di Vitone si completa con una doppia installazione all’interno dello spazio espositivo che ospita la mostra dedicata a De Pisis. In una delle prime sale il visitatore scoprirà un erbario che allude agli interessi botanici del ferrarese, che amava anche definirsi naturalista, entomologo e miniaturista. Nello stesso spazio vi si potrà imbattere in un pupazzo, le cui fattezze ritraggono Vitone. Il medesimo meccanismo di traslazione o transfert è testimoniato da un fantoccio di pezza che appare in una foto di De Pisis nel suo studio, documento d’archivio utilizzato da Vitone per realizzare una carta da parati che fascerà nella sua totalità le sale espositive al primo piano del museo. Su questa carta da parati saranno esposte le opere di De Pisis presenti in mostra, in un allestimento straniante che alimenta il gioco evocativo e concettuale dell’intero progetto espositivo.
Tre mostre che creano un dedalo di riferimenti e di connessioni tra un universo artistico e l’altro, e che trasportano lo spettatore in “teatro dell’evocazione”.
a cura di Ilaria Guidantoni