I paesaggi umani solitari e introspettivi del genio di Edward Hopper, uno degli artisti più rappresentativi del mondo americano, della vita quotidiana, affreschi silenziosi e misteriosi che pongono domande senza risposte, entrano nei cinema.
Nelle sale solo il 9 e 10 aprile, Hopper. Una storia d’amore americana è stato il nuovo appuntamento de La Grande Arte al Cinema, dedicato questa volta a uno dei simboli dell’arte statunitense.
Quella di Hopper è un’America popolare, silenziosa e misteriosa, capace di influenzare pittori come Rothko e Banksy, cineasti come Alfred Hitchcock e David Lynch, ma anche fotografi e musicisti.
Questo episodio del progetto originale ed esclusivo di Nexo Digital, per il 2024 distribuito in esclusiva per l’Italia da Nexo Digital con i media partner Radio Capital, Sky Arte, MYmovies.it e in collaborazione con Abbonamento Musei, è certamente originale rispetto alla “serie” finora vista, con poche interviste, legate anche all’essere schivo dell’artista che per lo più voleva essere lasciato in pace a dipingere, scarsa azione e un racconto legato soprattutto alla sua pittura.
Interpretato quasi sempre come il pittore della solitudine, Hopper esce dal film più come un osservatore enigmatico della realtà, del cambiamento sociale che non ritrae la vita quanto rappresenta un’idea. Questa d’altronde è l’essenza della pittura a suo parere. Nato nello stato di New York, costretto a fare l’illustratore per guadagnarsi da vivere, periodo nel quale non intende raccontare il suo Paese, dipinge poco perché, lui stesso racconta, disegna quasi ogni giorno per poi dipingere solo quando è convinto di trovare un’ispirazione, fatto che accade tre o quattro volte l’anno. Eppure, a dispetto del suo carattere, delle sue difficoltà, di periodi in cui si è arenato, ha dipinto quasi fino alla fine creando una tale quantità di capolavori in grado di parlare alle persone comuni così come agli esperti e capace di raccontare il tema del silenzio, dell’attesa e della solitudine.
Il documentario diretto da Phil Grabsky (sua la produzione con Exhibition on Screen), con la colonna sonora di Simon Farmer, analizza a fondo l’arte di Hopper (1882-1967), la sua vita e le sue relazioni personali, dagli esordi al rapporto con la moglie Jo, che abbandonò la sua promettente carriera artistica per fargli da manager.
Nasce in una famiglia della borghesia mercantile per la quale la religione era molto importante, fatto però che non impedì a Hopper di coltivare la propria creatività. È intorno ai nove anni quando, dopo la morte della nonna, si trasferisce nella sua stanza che comincia a disegnare e a prendere coscienza degli spazi, delle proporzioni, della luce, del suo filtrare all’interno e si appassiona all’osservazione delle case. Per fortuna, malgrado il rigore che vige in famiglia, la madre lo incentiva a disegnare e gli regala l’occorrente per cogliere le espressioni dei passanti che egli ama osservare. Bambino schivo, poi cresciuto in modo spropositato, si trovò nell’adolescenza con un fisico ingombrante che accentuò la sua timidezza e lo isolò spesso dai compagni dai quali viene bullizzato.
A un certo punto sceglie di partire per Parigi, città dalla quale rimane affascinato dicendo che qui sembra che tutto sia stato fatto per essere in ordine, in armonia, lontano dal caos del traffico americano, nulla lasciato al caso. Qui resta sotto il controllo a distanza della madre che pone delle condizioni molto rigorose per lasciarlo partire e mentre i compagni si divertono, frequentano donne, fanno esperienze, egli resta in disparte a osservare il mondo, dedito solo alla pittura. È nella capitale francese che riceve una grande delusione d’amore, una storia non vissuta, che lo segnerà profondamente.
Anche la storia con la moglie, pittrice che solo alla fine riuscirà a esprimersi in modo autonomo, è un legame profondo, sebbene complesso: i due dipingeranno spesso fianco a fianco, le stesse inquadrature e si influenzeranno. Lei gelosissima non gli concederà altre modelle al di là di se stessa, interpretata in varie fogge. Così le donne di Hopper sono varianti della moglie e figure ispirate al cinema.
L’amore, come recita il sottotitolo, è il sottofondo del film, quello per l’architettura e i paesaggi aperti e talvolta desolati degli States (una passione per i tetti a mansarda), ma anche quello, tenero e appassionato, per la determinata compagna di vita Jo.
Spiega il regista Phil Grabsky che inizialmente è stato “attratto dall’idea di un uomo scorbutico, monosillabico e sgradevole, ma ho imparato che questa era una sintesi molto ingiusta dell’uomo Hopper, che è stato molto più complicato e complesso di così. Durante gli studi per il film, ho anche scoperto che non si può capire Edward Hopper senza capire sua moglie, Jo. È per questo motivo che, con il progredire delle ricerche, abbiamo cambiato il titolo in Hopper: Una storia d’amore americana, alludendo sia al suo amore per l’architettura e i paesaggi americani, sia al suo rapporto con Jo. L’eliminazione della folla dalle sue scene urbane ci permette di concentrarci sulla narrazione di una persona sola”.
O forse solo solitaria in un universo nel quale le persone non si guardano, non si toccano, ognuna avvolta in una bolla eppure non è chiaro il senso di solitudine, di desolazione, di tristezza. C’è anche un’interpretazione, quella del regista pare, che guarda all’emancipazione femminile, con donne che escono da sole senza sembrare smarrite.
Insomma, il film ci racconta molto di questo artista mettendo però il dubbio su alcune diffuse certezze interpretative che si fermano all’apparenza dei suoi dipinti e invita a considerare quanto il fascino risieda probabilmente proprio in un’apparente facilità e riconoscibilità di metafisica contemporanea, ben lungi dall’essere risolta come mostra il film raccontando alcuni quadri tra i più celebri.
a cura di Ilaria Guidantoni