Al teatro di Fiesole, la collina sopra Firenze, è andato in scena Il ricordo che se ne ha scritto da Mariza D’Anna, giornalista professionista – lavora per il giornale La Sicilia – storia in gran parte autobiografica di della sua famiglia approdata nella Libia italiana nei primi decenni del Novecento. Una storia di emigrazione ‘forzata’ che assomiglia a una cacciata, a un rovesciamento dei ruoli, quando la storia, come si dice in conclusione, non va troppo per il sottile e dimentica di distinguere tra ‘i buoni’ e ‘i cattivi’, i colonizzatori che hanno commesso atrocità, quali il governo italiano dell’epoca e coloro che hanno offerto il proprio contributo mettendosi al servizio del paese che li ospitava come il nonno di Mariza. L’originalità dello spettacolo che intende viaggiare in Italia per portare una testimonianza che rischia di essere dimenticata di una storia nazionale è nell’essere un’opera musicale. Scelta indovinata quella di non realizzare un docu-film o uno spettacolo di teatro giornalistico, offrendo la leggerezza del ricordo legato all’infanzia. Attori e interpreti musicali e canori si alternano sul palco alla narrazione puntuale dei fatti storici dalla prima campagna di Libia sotto il Governo Giolitti, all’ambizione imperiale di Mussolini e le atrocità del ventennio, fino alla ritirata, il sogno dell’indipendenza, quindi la presa di potere da parte di Mouhammar Ghedafi nel 1969 e la cacciata degli italiani nel 1970 quando furono loro espropriati tutti i beni. Il testo è tratto dall’omonimo romanzo di Mariza D’Anna, pubblicato nel 2017 con Margana edizioni, che firma anche il libretto di insieme a Guido Barbieri; regia e allestimento scenico di Maria Paola Viano; assistente alla regia Veronica Randazzo; musica di Carla Magnan e Carla Rebora; attrice, Clara Galante, soprano Ana Spasic, viola Paolo Fumagalli, polistrumentista Edmondo Romano, Piano Duo Paola Biondi e Debora Brunialti. L’opera da camera, storia trapanese di respiro mediterraneo, è stata prodotta dal Luglio Musicale Trapanese e fortemente voluta dall’Amministrazione Comunale di Trapani, la città forse più legata alla sponda sud del Mare nostrum. Ai margini del deserto, a cento chilometri da Tripoli, nel 1928 il bisnonno dell’autrice-protagonista, ottiene in concessione dallo Stato un vastissimo fondo pietroso, un pezzo strappato al deserto, trasformandolo in una fiorente attività agricola con ulivi, palme da dattero e viti. Ma è il nonno Carlo la figura centrale del libro, descritto dai suoi venti anni attraverso un percorso che lo vede prendere le redini dell’azienda e portarla alla massima produttività, sino al 1° settembre 1969 quando, con un colpo di Stato il colonnello Gheddafi caccia via dal Paese i ventimila italiani che vi risiedevano, trasformandoli in esuli in una patria che non è più loro, dove non possono più riconoscersi. La notizia giunge durante le vacanze estive a Erice, nella provincia trapanese, dove la famiglia di Mariza si riunisce ogni estate. Bambini non afferrano il senso proprio di una rivoluzione ma capiscono che rivoluzione vuole dire non poter più tornare a casa e quello strappo da una terra che era gioco e sogno, come scivolare sui cartoni sulle dune in una società aperta, resterà una ferita lunga una vita. Nel libro viene evocato un ricordo personale, frutto di racconti vissuti e tramandati in famiglia, che è patrimonio comune di tanti italiani: la storia di una vita trascorsa in Libia dove la convivenza tra popoli di culture, religioni e costumi diversi non solo fu possibile ma ricca di affetti e di solidarietà comuni che restano dentro chi li ha vissuti. Nel testo c’è lo spazio del ricordo, la malinconia e anche quel rifiuto di qualcosa subito come una giustizia che molti italiani hanno pagato per altri, per i servitori di un regime che ha commesso stragi. La ferita aperta è anche quella dell’elaborazione di un lutto che si è consumato ad esempio con una grande amnesia, dimenticare l’arabo imparato alle scuole elementari.
a cura di Ilaria Guidantoni