Negli spazi di Massimo De Carlo, a Milano, le geometrie dei due artisti modernisti sono accostate nella loro combinazione di casualità e rigore, con differenze nella percezione sociale e storica della pittura. Si veda qui ArtTribune.
Un linguaggio modulare, geometrico, preciso, che contiene allo stesso tempo degli elementi di caos. Il dialogo inedito che prende le mosse tra gli artisti americani Sol LeWitt (Hartford, 1928 – New York, 2007) e McArthur Binion (Macon, 1946) negli spazi di Massimo De Carlo, in viale Lombardia a Milano, inquadra una tendenza tutta
modernista nell’intersezione tra il controllo e la libertà. Così è l’opera WALLDRAWING#357 di LeWitt, riprodotta sulla parete di Casa Corbellini-Wasserman secondo precise istruzioni, che prevedono la riproduzione di una serie di quattro segni grafici elementari da combinare in una trama con le imprevedibili “indicazioni” di un mazzo di carte. A ogni seme corrisponde un segno: ogni riproduzione è simile, ma necessariamente diversa dalle altre. Allo stesso modo, la precisione delle griglie ricreate a partire da brandelli di informazioni personali nelle opere Modern:Ancient:Brown e healing:work di Binion presenta, a fronte di una irreggimentazione severa, dei fattori di casualità e ricombinazione sempre diversi: l’improvvisazione – che, ispirata alla musica jazz, va dagli spartiti alle fotografie, fino alle rubriche telefoniche e al suo certificato di nascita – viene tuttavia confinata ai margini delle opere. La mostra, la cui apertura è stata prolungata fino al 5 febbraio 2022, espone la comune volontà – forse mai comprensibile quanto oggi – di porre un ordine alla vita, dandole una comprensibilità e una formula.
La filosofia di “caos ordinato”, rigidamente messa in scena nelle opere tridimensionali di LeWitt, ha una forte matrice architettonica: nelle sue sculture e principalmente nell’opera Horizontal Progression del 1991 (parte di una serie iniziata sei anni prima) viene rappresentata la rastrematura dei grattacieli newyorchesi della metà del secolo scorso – il progressivo restringimento dei palazzi mano a mano che si alzavano, pratica imposta dal piano regolatore della città per permettere alla luce e all’aria di entrare nella stretta griglia di palazzi – che si combina con una forma “a ziqqurat” dal sentore sacrale. La stessa prospettiva insieme spirituale e architettonica – non deve sorprendere, dal figlio di un pastore protestante – emerge in Altar di Binion, opera creata per l’abside della cappella del Museo Novecento nel 2020. Anche l’artista del Mississippi, trasferitosi negli Anni Settanta da Chicago alla Grande Mela, si lasciò impressionare dalla griglia degli isolati newyorchesi.
La tendenza di LeWitt a evitare la profondità, che lo portò a disegnare direttamente sui muri e iniziare il decennale processo di affinazione dei wall drawing, trovò una fondamentale fonte di ispirazione negli affreschi del primo Rinascimento, che ebbe modo di vedere di persona dopo il suo trasferimento a Spoleto all’inizio degli Anni Ottanta. Filippo Lippi, Giotto e Piero della Francesca – la cui opera precede la diffusione della prospettiva lineare – affascinarono LeWitt con la loro espressione piatta e i colori “nudi”: il modernista americano iniziò a usare l’inchiostro di china colorato direttamente sulle pareti, replicando l’effetto originale, subendo però suo malgrado i vincoli architettonici dei muri dove operava. La soluzione arrivò con l’inglobamento totale delle superfici: se per i primi wall drawing copriva solo una parte del muro, opere come Wall Drawing #589 (replicata nella galleria nel corso di tre settimane) sfidano l’architettura senza porsi confini e raggiungendo un’essenzialità pura e immediata.
Vicini, ma anche lontani: l’utilizzo dei materiali e la tecnica sono molto divergenti nella pratica dei due artisti, e così anche lo scopo finale dell’arte per i due. Le opere di McArthur Binion esposte in galleria, che appartengono al corpus DNA, utilizzano documenti privati dell’artista come “subconscio” astratto dell’opera, che funge da base per una serie di forme geometriche stratificate con pastelli e olio pressato. Questo esplicita la sua esperienza artistica come tipicamente afroamericana. Dopotutto, Binion è in prima linea nell’incoraggiare l’espressione delle minoranze negli States, con la sua fondazione (che dà anche il nome a molte delle sue opere) Modern:Ancient:Brown.
Sol LeWitt. Nasce a Hartford, nel Connecticut, da una famiglia di immigrati ebrei russi. La madre incoraggia le sue doti artistiche permettendogli di frequentare un corso presso il Wadsworth Atheneum di Hartford. Nel 1949, dopo aver conseguito un BFA alla Syracuse University, si reca in Europa dove studia dal vivo dipinti dei grandi maestri. A partire dal 1950 presta servizio nella Guerra di Corea, prima in California, poi in Giappone e infine in Corea.
Nel 1953 si trasferisce a New York e apre uno studio nel Lower East Side, nel vecchio insediamento ebraico ashkenazita su Hester Street. Durante questo periodo studia alla School of Visual Arts e lavora presso la rivista Seventeen.
Nel 1955 lavora per un anno come grafico nello studio dell’architetto Ieoh Ming Pei. Nello stesso periodo, conosce il lavoro del fotografo tardo ottocentesco Eadweard Muybridge, i cui studi sulla sequenza e sulla locomozione sono una delle sue prime influenze. Queste esperienze, unite a un lavoro di livello base come receptionist notturno e impiegato svolto nel 1960 presso il Museum of Modern Art (MoMA) di New York, ebbero un forte impatto sui successivi lavori dell’artista. Al MoMA, tra i colleghi di LeWitt, possiamo ricordare artisti come Robert Ryman, Dan Flavin, Gene Beery e Robert Mangold, e la futura critica d’arte e scrittrice Lucy Lippard.
Nel 1960, l’ormai nota mostra “Sixteen Americans (a cura di Dorothy Canning Miller, con lavori di Jasper Johns, Robert Rauschenberg e Frank Stella) crea un’ondata di eccitazione e di discussione nella comunità di artisti che segna LeWitt. LeWitt diventa anche amico di Hanne Darboven, Eva Hesse e Robert Smithson.
Durante la fine degli anni Sessanta insegna in diverse scuole di New York, tra cui la New York University e la School of Visual Arts.
Nel 1970, lascia New York per Spoleto, in Italia, situa il suo studio nel centro storico e si stabilisce sulle pendici di Monteluco, dapprima in un eremo di proprietà di Marilena Bonomo, successivamente in una casa torre acquistata nei pressi della chiesa di San Pietro. Dopo essere tornato negli Stati Uniti alla fine degli anni Ottanta pone a Chester, nel Connecticut, la sua residenza principale.
Muore nel 2007 a New York, a 78 anni, di cancro.
McArthur Binion.
McArthur Binion è nato il 1 settembre 1946 in una fattoria di cotone a Macon, Mississippi, da Russell Earl Binion e Martha Binion [1] in una famiglia di 11 figli. Nel 1951 la sua famiglia si trasferì a Detroit. Binion ha ricevuto il suo BFA dalla Wayne State University, Detroit, nel 1971, e il suo MFA dalla Cranbook Academy of Art, Bloomfield Hills, MI, nel 1973. [2] Nel 1973 si è trasferito a New York, dove Binion lavorò e fece amicizia con molti altri artisti dell’epoca che lavoravano in città, come Jean Michel-Basquiat e Sol Lewitt . Lo stesso anno si è trasferito a New York, Binion è stato selezionato per una mostra collettiva presso Artists Space , la seconda mostra dell’organizzazione no-profit co-curata da Mr. Lewitt e Carl Andre . I dipinti di Binion sono apparsi da allora al Contemporary Arts Museum di Houston , lo Studio Museum di New York, e il Detroit Institute of Art . Nel 1991, Binion si è trasferito a Chicago, dove ha assunto la posizione di Professore d’Arte al Columbia College nel 1993. [3] Sebbene abbia lavorato continuamente durante quel periodo, ha esposto il suo lavoro di rado fino a quando il commerciante di Chicago Kavi Gupta ha iniziato a rappresentarlo nel 2013. [6] Binion è stato rappresentato da Kavi Gupta e Galerie Lelong & Co. fino a quando non è entrato a far parte delle gallerie Lehmann Maupin e Massimo De Carlo nel 2018. Nel 2017, Binion è stato incluso nella curata VIVA ARTE VIVA di Christine Macel per il 57°Biennale di Venezia , dove i suoi dipinti della serie DNA hanno ricevuto una menzione notevole. Un articolo in prima pagina del 2019 sul New York Times lo ha riconosciuto, e altri, come tra una “generazione di artisti afroamericani tra i 70 e gli 80 anni che stanno godendo di una rinascita del mercato dopo decenni di indifferenza”.