In questi ultimi anni il numero di mostre fotografiche organizzate e disponibili in tutta Italia è aumentato a dismisura e, al di là del valore estetico e di contenuto delle mostre, la fotografia si è riconfermata sempre più come arte con un suo linguaggio contemporaneo, occupando a pieno titolo un posto fondamentale nel panorama culturale internazionale.
E’ evidente che l’aspetto organizzativo è assai più semplice mentre i costi di spedizione e di assicurazione delle opere sono ben inferiori rispetto a oggetti quali quadri e sculture, per non parlare dei vincoli burocratici e amministrativi. Tutto vero! Ma è la fotografia in sé che trionfa come sistema di creazione, elaborazione, archiviazione e scambio di informazioni visive.
La fotografia si afferma come vero e proprio capitale il cui possesso rappresenta un autentico vantaggio strategico. E’ la fotografia da investigare nel suo valore culturale del passato, testimonianza dell’uomo sull’uomo, sulla città, sulla società, sulla storia e politica di un dato momento in un luogo specifico. Non è tutto. La fotografia viene anche raccontata da un nuovo
punto di vista, come un’arte utilizzata nei processi di produzione.
Questa nuova visione, che parte comunque nel suo incipit alla metà del Novecento, crea un cortocircuito tra l’arte e le opere che, se da un lato entrano in importanti collezioni artistiche, dall’altro lato hanno una importanza sociale perché offrono anche una utilizzazione tecnologico-scientifica.
Eccoci dinanzi a una eccezionale collezione privata di circa mille fotografie dei coniugi Florence e Damien Bachelot e che rappresenta uno dei più importanti “corpus” privati di stampe in Francia. Nata negli anni 2000 dalla iniziativa di quattro soci come collezione aziendale del gruppo Aforge, la collezione nel 2009 viene riacquistata da Florence e Damien e diventa un progetto esclusivamente familiare formatosi sul filo della ricerca di opere fuori dal comune per storia e qualità. Venti anni di acquisizioni che hanno tracciato il profilo stesso dei Bachelot come quello di un’epoca, accompagnate dal racconto degli stessi collezionisti e dalle immagini di fotografi francesi, cechi, inglesi, belgi, italiani.
A Villa Medici sono esposte in mostra fino al 15 gennaio, sotto la curatela di Sam Stourdzè,
circa 140 opere che offrono un secolo di storia della immagine, dal ventesimo secolo fino al periodo contemporaneo, con approfondimenti incentrati su due filoni prediletti. Quello che guarda all’uomo e alla sua relazione con il proprio ambiente, dove c’è la città viva e dinamica e il ritratto poetico e solitario. Questa tradizione detta umanista, documentaria e sociale nasce agli inizi del ventesimo secolo e vanta autori come Henri Cartier-Bresson “l’occhio del secolo”, Doisneau e Ronis. L’altro filone è tutto americano e si incentra sulla “street art” rappresentata da Heath, Levitt, Frank, Meyer e altri ancora. Questa collezione si distingue in particolare per la presenza di una quarantina di stampe di Saul Leiter che, verso la metà del secolo, testimoniano con il passaggio al colore una svolta, un cambiamento importante.
Dal vintage al contemporaneo si arriva a Gilles Caron, a Ellena, Henno, Bourouissa.
Ma tutti i fotografi presenti nella collezione Bachelot si distinguono per una personale versatilità anche in altre arti: pittura, cinematografia, teatro, musica e per uno sguardo curioso e selettivo
che guida i loro scatti. Sono professionisti caratterizzati da un forte impegno civile, seri e rigorosi, convinti del valore documentario della fotografia. Molti di loro sono stati impegnati su vari fronti di guerra, Europa e Pacifico, combattendo guerre che spesso non erano le loro. Heath in Corea; Caron in Algeria, Israele, Vietnam, Biafra, Messico, Cambogia dove scompare forse per mano dei Khmer rossi. William Smith per ragioni personali diventa fotoreporter applicando i più alti standard di onestà al suo lavoro. Anche lui fotografo di guerra nel Pacifico scatterà immagini divenute vere e proprie icone senza tempo della Seconda Guerra Mondiale. Linguaggio travolgente, stile potente usava la macchina fotografica per difendere le sue idee.
La sperimentazione quale esclusiva chiave di lavoro è stata elemento fondamentale per molti di loro. Che fosse la casualità con la quale Ronis catturava i gesti di vita quotidiana riportati nel suo libro “Belleville-Menilmontant” (1954), libro cult del movimento umanista, o la celebrazione della vita alla quale Edouard Boubat dedicò il suo lavoro con un occhio alle arti di strada, ai
meno abbienti e al mondo del circo, erano sempre uomini che hanno dedicato la vita alla fotografia battendosi anche per il riconoscimento della professione e per l’ottenimento dei diritti d’autore.
Abbandonato il paese di origine molti fotografi – alcuni di loro ancora non sapevano di esserlo – avevano scelto Parigi, nella prima metà del secolo scorso, centro di un mondo e ideale palcoscenico dove incontrare, scoprire, sperimentare nuove tecniche e raggiungere la creatività alla fine di un percorso.
Henri Cartier-Bresson amava la pittura e usava la macchina fotografica come un taccuino da disegno, strumento immediato per cogliere l’espressione dei suoi personaggi. Anche Bresson cercava l’uomo nei suoi scatti e il suo rapporto con il mondo circostante, scopriva i piccoli mestieri quotidiani, le classi lavoratrici, i bambini. Ancora non si parlava di fotografia sociale ma “umanista”, un’arte democratica e moderna e che soprattutto non era più solo un passatempo.
Con lui a rappresentare questo movimento ci sono Ronis, Boubat, Doisneau. Poche le donne in
generale.
Janine Niepce storica dell’arte, segue gli eventi del maggio francese e segue le donne con le loro lotte per l’aborto, la contraccezione, la parità salariale. Sabine Weiss comincia a fotografare all’età di 11 anni con una macchina fotografica acquistata con la sua paghetta. Fu un vero amore durato tutta la vita.
Dalla “qualità francese” di questa fotografia che presenta uno stile comune, si attraversa l’Atlantico e si entra nel mondo americano dove la fotografia dagli anni Sessanta in poi si impone come punto di riferimento internazionale. Le radici ben piantate già negli anni Trenta, la fotografia esprime valori sociali e cerca nuovi contesti. La strada diventa protagonista, la composizione diventa radicale e prevalgono i volti e le strutture:
Dorothea Lange negli anni della grande depressione scende in strada con l’obiettivo e le sue immagini dei senza tetto e dei disagiati attirano l’attenzione del Resettlement Administration che nel 1935 la assume come fotografa. E’ grazie alle sue foto che il Governo Americano decide di stanziare aiuti d’emergenza. Ancora un fotografo di strada è Levinstein, figura chiave, che passeggia per New York alla ricerca di volti, gesti, corpi e che, con un comune linguaggio, sa avvicinare i suoi soggetti come nessun altro.
Come lo era stato Parigi, è New York il palcoscenico d’oltreoceano dove un’altra donna Helen Levitt nel 1936 acquista la sua prima Leica per fotografare con poetico realismo i disegni che i bambini di Harlem tracciano con il gesso sui marciapiedi.
Anche Ray Metzker occupa un posto unico nella fotografia americana: lavora solo in bianco e nero e la sperimentazione è la sua cifra. Per oltre cinquanta anni il suo lavoro si svolge nella camera oscura cercando la luce….
Vivian Maier, altra esponente di spicco della street photography, esplora il bianco e nero, le scene urbane, l’autoritratto, gli oggetti. La sua opera e il suo talento verranno scoperto solo dopo la sua morte.
Saul Leiter, scoperto a New York negli anni Novanta dai Bachelot, pittore e fotografo raffinato e modernista, con un raro senso della composizione e del colore, è considerato un pioniere nell’uso del colore, sebbene il suo talento venga tardivamente riconosciuto.
Paul Fusco fotoreporter viene soprattutto ricordato per le circa duemila foto scattate in un solo giorno del giugno 1968 dal treno funebre che trasportava la salma di Bob Kennedy. Lungo le rotaie Fusco immortala migliaia di persone venute a dare l’ultimo saluto al giovane senatore, ciascuna con la sua storia, creando un affresco epico.
Nella Mostra si incontrano architetti, pittori, musicisti, registi, sociologhi, insegnanti la cui vita è stata attraversata da questa illuminazione, hanno seguito una personale stella cometa contribuendo in grande misura alla storia della fotografia di un intero secolo, con le loro tecniche innovative, con il colore, con la sperimentazione ma soprattutto con le loro storie ed emozioni.
a cura di Daniela di Monaco