Fino al 14 aprile, al Teatro Strehler, Glauco Mauri e Roberto Sturno affrontano il Re Lear di William Shakespeare, la più titanica delle tragedie shakespeariane, che il regista, Andrea Baracco, descrive come «una delle più nere e per certi versi enigmatiche», su traduzione di Letizia Russo, riduzione e adattamento di Andrea Baracco e Glauco Mauri.
Nel corso della sua lunga carriera artistica, Glauco Mauri ha dato vita a ventiquattro personaggi shakespeariani e diretto da Andrea Baracco, interpreta per la terza volta Re Lear, dramma
dell’amore padri-figli e della follia di grande attualità. I costumi novecenteschi sottolineano questa universalità. Al di là del linguaggio infatti l’avidità per il potere, la lusinga della parola che gratifica con la sua falsità, l’onestà della figlia più amata, Cornelia, che non possiede – ed è contenta in tal senso – né occhio seducente né la parola con la sua untuosità, per questo diseredata, sono tutti temi che da sempre interessano la famiglia. Come ha dichiarato Glauco Mauri, che tocca le 500 repliche con la corona di Re Lear, egli stesso ormai è quel personaggio, per l’età, 92 anni, e l’esperienza. Il suo Re Lear non è folle nel senso delirante, non è impetuoso quanto malinconico, è un uomo nel momento del declino, è folle come un infermo, è folle perché debole; è folle come un bambino che ha bisogno di sentirsi amato in un modo smisurato e per questo mette in competizione le figlie. E ancora, è un re senza più potere, al quale vengono sottratti in un sol colpo 50 servitori, un uomo che dopo ave dato tutto si sente spodestato. Il regista segue questo sentire e colora di ironia con qualche nota grottesca i dialoghi. Re Lear si sente sconfitto e amareggiato, rabbioso più con se stesso per non aver capito che con
gli altri. Di impatto la scenografia e il disegno delle luci – rispettivamente di Marta Crisolini Malatesta, che ha curato sia le scene sia i costumi, di Umile Vainieri – con una parete attrezzata fissa che si muove e senza una modernità urticante riesce a trasferire il senso di un ambiente cupo; suggerisce il labirinto, stanze in cui ci si perde, con l’uso del video che disegna ombre, voli di corvi minacciosi, una corona che scende dall’altro come un pesante lampadario che diventa quasi minaccioso. Suggestiva la musica di Giacomo Vezzani e Vanja Sturno che alterna momenti lirici con un pianoforte molto riconoscibile a tratti perfino romantico, sebben il tocco sia moderno e composizioni di musica elettronica.
«Ed eccomi qui per la terza volta, alla mia veneranda età, a impersonare Lear, ha dichiarato Glauco Mauri. Mi sono sempre sentito non all’altezza di quel sublime crogiolo di umanità. In questa mia difficile impresa, mi accompagna la convinzione che, per tentare di interpretare Lear, non servono tanto le eventuali doti tecniche maturate nel tempo, quanto la grande ricchezza umana che gli anni mi hanno regalato nel loro, a volte faticoso, cammino. Spero solo che quel luogo magico che è il palcoscenico possa venire in soccorso ai nostri limiti. Cosa c’è di più poeticamente coerente di un palcoscenico per raccontare la vita? E nel Re Lear è la vita stessa che, per raccontarsi, ha bisogno di farsi teatro».
Commenta il regista: «Quello che mi ha sempre colpito di questa tragedia, che è una delle più nere e per certi versi enigmatiche tra quelle dell’autore inglese, è che sotto quel nero sembra splendere qualcosa di incredibilmente luminoso e proprio questa luce sepolta dall’ombra la rende così affascinante. Padri indegni e figli inetti, padri indegni che hanno generato figli inetti, le madri assenti, estromesse dal dramma. Nessuno dei personaggi è in grado di regnare, di assumersi l’onere del potere, nessuno sembra avere la statura adatta, nessuna testa ha la dimensione giusta per la corona, chi per eccesso, vedi Lear, chi per difetto vedi tutti gli altri. Solo giganti o nani in questo universo dipinto da Shakespeare».
a cura di Ilaria Guidantoni