Dal 25 ottobre al 30 novembre 2019 a Firenze a Tornabuoni Arte è visibile un’ampia selezione dedicata a Renato Mambor, a cura di Federico Sardella e in collaborazione con l’archivio Mambor. La mostra, corredata da un approfondito catalogo, ripercorre il lavoro poliedrico dell’artista, tra i più originali della scena europea dell’arte durante la seconda metà del XX secolo. Mambor è stato uno dei primi a sconfinare dalla pittura verso altri linguaggi quali fotografia, cinema, performance, installazioni e teatro, per tornare comunque sempre alla pittura. Continuando a lavorare sul linguaggio e sugli elementi costitutivi dell’arte, ha avviato una sperimentazione sul rapporto tra organismo e ambiente, tra arte e vita, sul cambiamento dello sguardo e dei punti di vista, sulle relazioni interne ed esterne, su separazione e unità.
Personalità eclettica, ha vissuto appieno la Roma della sperimentazione e dell’avanguardia, con Mario Schifano, Franco Angeli, Tano Festa e Cesare Tacchi, Mambor è tra le figure di primo piano della Scuola di Piazza del Popolo.
La sua prima esposizione ha luogo nel 1959 alla Galleria “L’Appia Antica” e l’anno successivo lo si vede tra i vincitori dei Premi assegnati dalla Galleria Nazionale d’Arte Moderna. Di seguito, le sue opere vengono proposte, ripetutamente, negli spazi della Galleria La Tartaruga di Plinio De Martiis.
Vive dal di dentro gli anni de La Dolce Vita, tanto da essere scelto da Fellini tra gli interpreti del film, esperienza, quella del cinema, che lo ha poi visto impegnato in numerosi film e con diversi registi.
Dopo il cinema è stata la volta del teatro. Dal 1975 dirige il Gruppo Trousse (nome tratto dalla scultura di metallo da lui realizzata) concentrandosi su una ricerca interiore, sugli aspetti cognitivi, emotivi dell’uomo. Per più di decennio è autore e regista di opere teatrali, e proprio nell’esperienza teatrale viene accompagnato dalla donna che diventerà sua moglie, Patrizia Speciale.
Parallelamente si esprime con la fotografia e con performance, video e filmati.
«Voglio fare di tutto, ballare, cantare, scrivere, recitare, fare il cinema, il teatro, la poesia, voglio esprimermi con tutti i mezzi, ma voglio farlo da pittore perché dipingere non è un modo di fare ma un modo di essere», una frase di Mambor che offre una precisa immagine del suo essere artista. Alla pittura, l’amore di sempre, resterà infatti fedele sino all’ultimo.
Mambor, negli oltre 55 anni di impegno artistico, ha rinnovato instancabilmente le forme e approfondito la conoscenza di sé, inventando dispositivi di comunicazione che coinvolgessero lo spettatore, lasciando opere, anche inedite, di grande valore per la contemporaneità.
“Ho conosciuto e frequentato Renato Mambor – ricorda Roberto Casamonti, titolare della Tornabuoni Arte – ogni volta stupendomi per quanto quest’uomo, per molti versi straordinario, sapesse creare vera arte ovunque e su qualsiasi “cosa” si applicasse. Era un artista che aveva l’urgenza di esprimersi e il coraggio di farlo con i media più diversi. Lo stesso Mambor sosteneva che il lavoro di un artista andrebbe letto e considerato innanzitutto a partire dall’oggi, dagli ultimissimi elaborati e dalle riflessioni più recenti. In tale ottica, è stato naturale pensare a questa mostra considerando i lavori degli anni Sessanta, ma nella raccolta delle opere ho scelto di assecondare il mio istinto e il mio gusto e favorire numerosi pezzi degli anni Novanta e soprattutto Duemila, sino alle grandi installazioni Tutti sullo stesso piano e Fili, che trovo particolarmente importanti ed esemplificative la poetica dell’autore”.
La mostra è arricchita da un volume monografico bilingue (italiano e inglese) edito da Forma e curato da Federico Sardella con testi dello stesso Sardella, di Sara Uboldi e Patrizia Speciale Mambor, oltre una conversazione con Gianna Mazzini.
In particolare Mambor ha lavorato sulla relazione tra arte e teatro con attenzione al corpo che nella performance anche se non diventa una vera propria azione scenica invita all’interazione con il pubblico, processo cominciato con Trousse, con l’idea di una gabbia piccola che raccolga gli oggetti di uso quotidiano fino a diventare grande come una cabina, dove ci entra un uomo, che poi entra in dialogo con un altro. In tal senso il corpo, a cominciare dallo sguardo, per finire con la danza, è centrale nel lavoro di Mambor come fa notare nel suo saggio Sara Uboldi. L’aspetto interessante è il processo di osmosi tra soggetto e oggetto, osservatore
e osservato, che crea dialogo. Esiste nelle opere dell’artista, come fa notare ancora la critica, una risonanza tattile, resa attraverso l’enfatizzazione corporea dei gesti come in Mani cucite e della torsione corporea come nell’opera Nel cerchio, o ancora la densità e granulosità della sabbia nel contrasto con la superficie levigata e trasparente del vetro e l’epidermide in Scoprire il volto; e infine nella trama e tessitura della corda e del legno in Trattenere. Lo sguardo per Mambor attiva un processo neuronale che si trasferisce anche sull’oggetto guardato, osservato, in uno scambio di assenza e presenza.
Nello stesso senso i suoi oggetti sono vivi perché cambiano nel contesto, come se fossero inseriti nell’azione scenica di un palcoscenico, e non semplicemente figure piatta, anche nel caso dei suoi uomini ridotti a silhouette. L’oggetto-variabile come sottolinea Federico Sardella è legato infatti tipicamente alla relazione della presenza del teatro che scrive: “Le mollette per stendere il bucato utilizzate nelle primissime composizioni, presto poi impiegate come matrice per ottenere opere in cui l’oggetto è assente in favore della sua immagine, già mostrano come la messa in scena dell’oggetto stesso, reiterato e moltiplicato, reso timbro, ripetibile senza limitazioni, nello spazio che gli viene assegnato, tende a dare vita a quel fenomeno, che si concretizzerà a pieno nelle opere successive, noto come rottura della quarta parete.”
a cura di Ilaria Guidantoni