Rosita Ferrato, torinese, è giornalista, scrittrice e fotografa; viaggiatrice appassionata e indipendente ha visitato numerosi paesi del Mediterraneo e, tra l’altro, dall’esperienza di viaggio sono nati Albania, sguardi di una reporter (Lexis, 2011); Albania, un piccolo mondo antico tra Balcani e Mediterraneo (Polaris Edizioni, 2014); I tuffatori di Casablanca – Appunti sul Marocco (2017), le mostre fotografiche “Albania dopo il 1991” (in collaborazione con il fotografo Aldo Pavan, 2011), “Primavera a Tunisi” (2016) “Marocco: il racconto, le immagini, i profumi” (2017). E’ anche autrice di ironici libri di costume: Le Piere (Seneca Edizioni, 2009), Le Divine (Lexis, 2010), I Gagà (Il punto, 2012).
Nelle vesti di giornalista professionista ha collaborato – tra l’altro – con testate Rai e Mondadori, con il periodico italo-rumeno Noua Comunitate (di cui è stata caporedattrice), con l’agenzia di stampa nazionale Redattore sociale, con le testate Eco, Nuova società, Turin e Babelmed, il sito delle culture mediterranee.
E’ fondatrice e presidente dell’associazione culturale Il Caffè dei Giornalisti, un’associazione culturale al servizio della libertà di stampa e osservatorio dei cambiamenti geo-politici in atto nei paesi che affacciano sulle sponde del Mediterraneo.
Ispirandosi alla Maison des Journalistes di Parigi, esordisce nel 2012 nel panorama culturale locale promuovendo incontri sulla libertà di espressione e il rispetto dei diritti civili.
Annualmente organizza Voci scomode, che si è tenuto proprio nei giorni scorsi a Torino, quest’anno dedicato alla Siria, appuntamento dedicato alla libertà di stampa nel mondo e alle testimonianze dei giornalisti costretti all’esilio: in tre edizioni (organizzate in partnership con la MDJ e il Dipartimento di Culture, Politiche e Società dell’Università di Torino) ha raccontato le “storie di chi sfida il potere” in Siria, Turchia, Africa, Arzerbaigian, Cecenia e messo in mostra il giornalismo esiliato.
L’abbiamo incontrata su una terrazza di Tunisi e incuriositi le abbiamo chiesto di illustrarci la sua attività.
Scrivere e fotografare hanno in comune, a mio parere, velocità e tempi lunghi. Un paradosso? Non direi: entrambe richiedono un’ispirazione seguita da una sosta, un momento sospeso che significa fermarsi, prendere il taccuino o la macchina fotografica e far scaturire qualcosa, buttar giù quel guizzo, quell’idea arrivata non si sa come e da dove.
Nel caso della scrittura, l’ispirazione avviene di getto, e subito va fissata sulla pagina, anche solo in una bozza, in poche righe; però poi va rivista, curata, corretta con più calma, rivedendo e rileggendo.
Nel caso di un scatto, una bella foto la si coglie al volo, la si capisce subito, magari durante un viaggio passando in una via, notando una situazione, un angolo di città, un cielo, dei colori, delle persone, dei visi, un gatto che salta dalle mura di un antico edificio. Ci vuole velocità, intuito, e magari diversi scatti: tra i tanti magicamente arriva quello giusto.
A volte invece lo scatto va studiato, mi viene in mente per esempio la foto della copertina dei Tuffatori di Casablanca, il mio ultimo libro sul Marocco. In quel caso, la bellezza della situazione era evidente. C’era il mare, ragazzi temerari e muscolosi che si tuffavano d un muro alto più di dieci metri, il colore del cielo, il movimento; ma ho preferito non aver fretta. Mi sono seduta sulle rocce sottostanti e mi sono fermata ad aspettare il frammento interessante: con calma, pazienza, godendomi il rumore dell’oceano, la brezza tiepida di Casablanca, una piacevole attesa, cogliendo odori, suoni, e aspettando il momento adatto.
Improvvisamente la magia: una giovane con il costume rosso, in piedi sullo strapiombo, si è messo a danzare, a sbruffoneggiare con i suoi amici, prima di lanciarsi nel vuoto liquido dell’oceano. E allora ho capito che quello era l’istante, e ho scattato la foto. Sembrava tutto perfetto, un tocco di ironia, i colori giusti, l’atmosfera che cercavo.
Insomma, nella fotografia e nella scrittura, per come le vivo io, ci vuole il guizzo iniziale, e poi pazienza. Nella scrittura per rivedere, rileggere, riformulare il canovaccio che si è buttato giù di getto; nella fotografia va colta la bellezza dell’immagine, ma non sempre è immediato, a volte ci va la pazienza: di aspettare, magari seduta su una roccia in un paese del nord Africa.
Unire fotografia e scrittura in un libro, in un articolo, in una pagina, è completare un quadro, esprimere qualcosa di sé in maniere differenti. La stessa città, la stessa persona, lo stesso luogo o situazione vengono palesati o posati sulla carta con un diverso linguaggio. E potersi esprimere in diversi modi è un privilegio.
(In collaborazione di Paolo Bongianino)