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Due testi del drammaturgo Samuel Beckett vengono rivisitati con successo a dimostrazione che temi come la precarietà della condizione umana e il rapporto con il tempo sono sempre attuali e presenti nella nostra vita.
E’ stato definito, in maniera un po’ riduttiva accanto a Eugène Ionesco e Harold Pinter, il Maestro del teatro dell’assurdo: l’irlandese Samuel Beckett (1906-1989), premio Nobel 1969 per la letteratura, fa seguire la sua produzione di narratore (Molloy e L’innominabile) a quella di drammaturgo con Aspettando Godot (1952) e Finale di partita (1957). Esule in Francia, dove aveva fatto parte della Resistenza guadagnandosi la Croce di Guerra, scriveva sia in inglese, la sua lingua madre, che in francese, idioma del Paese dove aveva scelto di vivere sino alla fine dei suoi giorni.
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Sin da questi primi lavori è chiara la tematica che svilupperà anche nelle sue opere successive: la precarietà della condizione umana, il rapporto con il tempo, il futuro sospeso e incerto che ci attende con l’inevitabile (in casi estremi desiderabile) fine della vita. Accanto a drammi dalla struttura più minimalista (L’ultimo nastro di Krapp o Breath che dura appena 35 secondi e voleva essere un ironico commento al musical Oh Calcutta!, usato poi come incipit dello stesso) altri appaiono più compatti: è il caso di Giorni felici, composto in inglese nel 1961 con il titolo Happy Days, pubblicato l’anno successivo e da lui tradotto in francese nel 1963, diventando Oh les beaux jours.
Già all’alzarsi del sipario il primo impatto è spiazzante: vediamo infatti una donna costretta sino al busto in una sorta di montagnola, frammento di uno scenario che potrebbe essere postatomico, quello di un terribile naufragio dei nostri tempi o più semplicemente un deserto in cui si è rimasti intrappolati. Scopriamo presto che si chiama Winnie ed è in quel luogo prigioniera insieme al marito Willie, al momento invisibile perché raggomitolato in una buca del terreno. Indossa un corsetto e al collo porta il doppio filo di perle da signora borghese, riesce a muovere le braccia che usa per frugare in una sacca che le pende accanto, dalla quale estrae oggetti di uso comune: spazzola per capelli, dentifricio, rossetto, limetta per unghie, uno specchio e anche un revolver che di tanto in tanto accarezza. La sua giornata è regolata dal suono di una campanella, manovrata non sappiamo da chi, che decide quando deve svegliarsi e quando arriva l’ora del sonno. La prima attività del nuovo giorno è dedicata all’accurata, per quel che può, pulizia personale ma quello che più stupisce è il parossistico entusiasmo che subito manifesta per la sua situazione e l’ottimismo che la pervade riguardo al futuro, siglati dall’aggettivo “meraviglioso”. Un poco più critica pare nei confronti del marito, colpevole di dormire troppo e poco disposto, anche nelle poche ore di veglia, a interagire con lei e forse dedito a piaceri solitari. Ai ripetuti suoi solleciti, l’uomo risponde con grugniti o citando a caso titoli di un giornale che, pur sempre nascosto, brandisce tra le mani. La consolazione le viene dalle cose che ha di più caro: un vezzoso cappellino e un parasole (che poi prenderà misteriosamente fuoco) per proteggersi dai raggi torridi.
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La seconda parte si apre con una visione ancora più inquietante: Winnie è completamente sepolta tranne che per la testa senza però poterla muovere. Ci aspetteremmo parole di disperazione, invece il suo soliloquio (sempre forbito e nello “stile antico” come lei ama definirlo) continua a essere improntato alla positività: si aggiungono i ricordi dell’infanzia con l’amata bambola compagna di giochi e quelli della non meglio identificata coppia dei signori Schauer. Veniamo a sapere che in quella landa desolata è transitata un’altra coppia, con l’uomo intento a volgari commenti di natura sessuale e la donna desiderosa solo di proseguire oltre, mai sfiorati dall’idea di prestare aiuto, peraltro non richiesto.
C’è però un colpo di scena: Willie riesce a sgattaiolare fuori dal suo buco e strisciando con fatica riesce a sollevarsi, avvicinarsi alla collinetta e a farsi scorgere dalla moglie: lei è felice e desidererebbe un bacio. Lui prova a scalare il monticello ma non ne è capace e deve desistere. Nell’infinita ridda di interpretazioni del criptico testo questa défaillance potrebbe adombrare un’impotenza sessuale ma molteplici sono appunto le ipotesi che possiamo formulare: la più evidente quella dell’impossibilitò di una reale comunicazione e contatto tra noi esseri umani. Inesorabile, il campanello avverte che non è più tempo di parlare ma di dormire e Winnie deve metter fine alle sue elucubrazioni.
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A misurarsi per la prima volta con Beckett è il regista Francesco Frongia. “E’ un testo profondamente enigmatico, si prova un senso d’impotenza, l’ineluttabilità come condizione dell’esistenza. La lettura dei suoi lavori è sempre accompagnata da scoppi di risa alternati a momenti di profonda angoscia: Beckett riesce a rinchiudere il niente in parole. Giorni felici ci mette difronte all’inevitabilità del tempo, ammesso che esista e non sia anch’esso un’invenzione. Winnie ricorda e riflette di aver avuto la fortuna che le permette, ora che è bloccata, di sopportare la condanna del vivere. Se all’apparenza siamo destinati a ripetere uno schema, le parole di Beckett in realtà lasciano un notevole margine di libertà all’immaginazione degli artisti. Abbiamo prefigurato quella distesa inaridita come un cartellone pubblicitario tridimensionale, un diorama “plasticoso” che si apre su una zona di montagnole in cui i protagonisti sono intrappolati: una visione retro-futurista, di un futuro immaginato nel passato”.
La sua regia è equilibrata e visivamente assai accattivante con il giusto peso riservato alla parola: forse, nonostante le note, ferree restrizioni sulla messa in scena imposte dallo stesso Beckett e dagli eredi, poteva azzardare qualche guizzo inventivo in più nella direzione della protagonista. Per la prima volta in scena al Cherry Lane Theatre di New York nel 1961 con Ruth White e la regia di Alan Schneider, la pièce è un banco di prova per primedonne che ha visto nel tempo succedersi l’interpretazione di Natasha Parry diretta dal marito Peter Brook, quella di Madeleine Renaud con la regia di Roger Blin e quella di Giulia Lazzarini del 1988 con Giorgio Strehler regista.
ùOra l’impegnativo ruolo (basti citare lo sforzo di memoria) tocca a Elena Russo Arman. Colonna del Teatro dell’Elfo, la ricordiamo sempre efficace nei ruoli più disparati, da quello drammatico di Harper in Angels in America a quello recente della pragmatica Elisabetta I. La sua Winnie mescola con notevole sapienza fatuità, un certo dispotismo, arguzia e infine dolente accettazione della sua immarcescibile condizione: di certo una delle prove più mature della sua lunga carriera.
Accanto a lei, il silente Roberto Dibitonto è l’infelice Willie a cui presta la giusta fisicità ben espressa anche nel finale quando indossa un inaspettato frac. La scorrevole traduzione è di Gabriele Frasca, i costumi atemporali e la scena (fondale azzurro con basse nuvole rosse e collinetta a guisa di una imponente mammella) sono firmati da Ferdinando Bruni, suono di Lorenzo Crippa che ci congeda con Tace il labbro dalla Vedova allegra di Franz Lehàr, e luci di Roberta Faiolo. Giorni felici, prodotto dal Teatro dell’Elfo, rimane in scena alla Sala Fassbinder dell’Elfo Puccini di Milano sino al 21 aprile.
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Come già accennato, Aspettando Godot anticipa i temi cari a Beckett: la costante domanda su chi siamo e dove stiamo andando, la nozione di tempo e l’attesa di un accadimento futuro che forse non si paleserà mai. Incontriamo Estragone (detto Gogò) e Vladimiro (chiamato anche Didi) in una terra di nessuno dove solo un albero trova alloggio: sono due clochard sempre in cerca di un rifugio per la notte e di qualcosa da mangiare che aspettano la comparsa di un certo signor Godot (Dio?) il quale, ipotizza lo spettatore, possa in qualche modo alleviare la loro condizione.
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Sembrano legati da fraterna amicizia ma in realtà scopriamo man mano che il loro sodalizio è più una necessità, un rapporto simbiotico, il non poter vivere senza l’altro, piuttosto che un sentimento d’affetto. Godot però non arriva, più volte annunciato da un ragazzo (un angelo?) che gli fa da messaggero, assicurandone invano la comparsa per il giorno seguente. Infatti questa persona o entità è e sarà sempre latitante. Sopraggiunge invece un certo Pozzo che tiene sadicamente al guinzaglio Lucky (ironico nome dato che “fortunato” non sembra proprio), trattandolo da schiavo. In realtà il legame tra i due è più complesso e la corda che li unisce non impedirebbe un rovesciamento di ruoli. Pozzo asserisce di essere il padrone del terreno sul quale si trovano i due senzatetto mentre Lucky improvvisa un monologo sfoggiando cultura e grande proprietà di linguaggio, poi i due riprendono il cammino. Dal canto loro Didi e Gogò, infreddoliti e affamati, litigano e s’insultano a vicenda con quelli che ritengono i peggiori epiteti, tra cui l’ironico “critico teatrale!”.
Un giorno è trascorso o forse anni perché quando Pozzo e Lucky ricompaiono, il primo è diventato cieco e il secondo è visibilmente Invecchiato, inoltre la corda che li unisce si è fatta molto più corta, simbolo di una maggiore dipendenza reciproca: dopo poco i due scompaiono di nuovo. Più volte Gogò e Didi manifestano l’intenzione di impiccarsi, soluzione però mai messa in atto. A tenerli in vita è l’attesa, giustificata dal messaggero che, ancora una volta, li avvisa che Godot arriverà l’indomani: l’intenzione è quella di andarsene ma non muovono un passo. Il linguaggio non riproduce quindi la realizzazione della volontà individuale e non esiste più un legame tra parola e azione.
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Più virato verso la tragedia rispetto a Giorni felici, questo testo non poteva non attrarre il regista per eccellenza della tragedia greca oggi, Theodoros Terzopoulos, che aveva già rivisitato Dondolo e Finale di partita. “Oltre all’atemporalità dell’opera di Beckett e alla sua dimensione poetica, quello che mi ha colpito di questo testo è il suo profondo legame con Eschilo, in particolare alcuni principi dell’autore tragico, cioè la staticità e la vertigine interiore, il concetto di perdita e di nucleo ontologico. Quantunque sembri che quest’opera appartenga alla zona grigia dell’esistenza umana e che sia un testo profondamente pessimista, tuttavia il modo in cui è scritto, la sua consistenza strutturale, le sue trasgressioni, il rifiuto come tesi, la tesi come rifiuto e soprattutto il sarcasmo, danno una dimensione di ottimismo e gioia per la vita. I personaggi non fanno filosofia ma ironizzano, sono soggetto del loro sarcasmo, l’uno nei confronti dell’altro e ciascuno nei confronti di se stesso. Ritrovano alcuni elementi dell’esistenza umana che tendono a scomparire, come la relazione del tutto con l’amore e della morte con il fascino. Aspettano, riconciliati con l’idea della morte, cercando di riconciliarsi con se stessi. Godot è l‘inafferrabile, quello che non riusciamo mai a realizzare, è il profondo desiderio radicato nel conscio e nel subconscio di superare la realtà e la quotidianità. Vladimiro ed Estragone non attendono niente, stanno facendo esercizi di sopravvivenza, creano scene ed immagini di un incubo che viene dal futuro”.
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Supportata dall’ottima traduzione di Carlo Fruttero, la regia di Terzopoulos, che firma anche scene, luci e costumi, avvince grazie al forte impatto visuale con un nero, metallico sipario che si scompone, aprendosi e chiudendosi geometricamente, lasciando spazi ristretti agli interpreti, spesso completamente distesi o a carponi. Felice è altresì l’idea di sostituire l’albero con un bonsai situato in proscenio. L’altro punto di forza è la straordinaria performance di Enzo Vetrano (Estragone) e Stefano Randisi (Vladimiro): incisivi nei serrati confronti, come nei battibecchi e nei momenti di manifesta empatia. Al loro fianco l’eccellente Paolo Musio (il prima tracotante, poi disperato Pozzo), il valente Giulio Germano Cervi (un Lucky bifronte, servo e padrone), e il giovane Rocco Ancarola (il Ragazzo). Consulenza drammaturgica di Michailis Traitsis e musiche originali di Panayotis Velianitis che riecheggiano inni religiosi. Aspettando Godot, prodotto da Emilia Romagna Teatro, Teatro di Napoli, in collaborazione con ATTIS Theatre Company, visto alla Sala Grassi del Piccolo Teatro dove ha ultimato la lunga tournée, sarà dal 15 al 19 maggio all’Onassis Foundation di Atene.
a cura di Mario Cervio Gualersi