A Palazzo Pallavicini, fino al 28 gennaio 2024 è di scena la personale Vivian Maier – Anthology, un’esposizione di 150 fotografie originali e Super 8mm di una delle protagoniste femminili della fotografia del Novecento; organizzata e realizzata da Chiara Campagnoli, Deborah Petroni e Rubens Fogacci di Pallavicini srl, curata da Anne Morin di diChroma photography sulla base delle foto dell’archivio Maloof Collection e della Howard Greenberg Gallery di New York.
In occasione della presentazione alla stampa abbiamo avuto modo di conversare con la Curatrice che ha sottolineato quanto per la Maier la fotografia sia stata un atto di resistenza e di restituzione di dignità a sé e a tutta quella working class che era cancellata dalla cultura di un’America proiettata al successo e al glamour. Al centro l’autoritratto, un unicum, una sorta di
selfie ante litteram per un’artista che di sé ha realizzato 500 scatti ogni anno, un record mai battuto.
Altro cuore pulsante della mostra, come accennato, la strada degli ultimi e i ritratti di indigenti, comunque gente qualunque, spesso fotografata dal basso verso l’altro, quasi sempre scegliendo il primo scatto, quello preso di sorpresa. E ancora l’attenzione ai bambini che la fotografa conosceva molto bene essendo stata per anni una tata e di loro colse quello che il regista Tarkovsij diceva dell’infanzia e del poeta, che non vede ma scopre il mondo, cogliendo, secondo quanto dichiarava Victor Hugo, lo straordinario nell’ordinario. È questa la cifra qualificante del lavoro di Vivian Maier per la quale la fotografia era “una stanza tutta per sé” per dirla con Virginia Woolf, uno spazio di libertà e una sorta di rivincita sulla storia.
La mostra nasce da un lungo lavoro di archivio che contiene tutto l’universo della fotografa dai suoi oggetti anche di uso comune ai suoi cappelli ad esempio oltre naturalmente i 120mila scatti, un materiale sterminato che forse solo Doisneau ha superato con le sue 150mila immagini. L’aspetto interessante, come ha sottolineato la curatrice, è la vivacità dell’archivio che ci restituisce il mondo complesso di Vivian, donna complessa dalla cultura variegata, con una visione profondamente umanistica, francese, nella cui biblioteca convivono saggi e opere di narrativa più leggera.
L’aspetto curioso è che essa rappresenta il caso di un anonimo diventato un personaggio iconico quasi suo malgrado. Ella nasce infatti a New York nel 1926 da una famiglia di modeste condizioni e si mette a lavorare presto, coltivando per una vita la
fotografia ‘da dilettante’, per puro piacere o meglio per un’esigenza intima insopprimibile. Tra l’altro muore nel 2009 praticamente in miseria. Il suo nome resta sconosciuto fino al 2007 quando John Maloof acquista un box a un’asta. Dalla scatola emergono effetti personali femminili di ogni genere appartenenti a una donna e il contenuto è messo all’asta per pagare alcuni ritardi nel pagamento dell’affitto. Nell’ambito del materiale anche una cassa con centinaia di negativi e anche dei rullini mai sviluppati. Maloof cominciando il lavoro di organizzazione del materiale si rende conto del potenziale e Vivian Maier diventa un fenomeno mondiale. Anne Morin incontra la realtà di Maier nel 2010 nel corso di un appuntamento con il gallerista che aveva ricevuto alcune foto e da qui nasce un primo omaggio con una mostra a Valladolid nel 2012 e l’anno seguente al Jeu de Paume a Parigi. Si innesca in tal modo un processo di scoperta e lancio di questa figura. Nascono dei film, la casa editrice Skira pubblica un libro e il mito di propaga a livello internazionale in breve tempo. La sicurezza con la quale fotografa e la potenza delle immagini colpiscono Anne Morin che comincia a lavorare su questa artista del territorio che sembra restituire una mappatura. Un luogo denso del suo sentire è certamente quello in cui è stata particolarmente felice, nella villa dei Gainsbourg presso i quali ha lavorato, vicino al lago Michigan dove non a caso riposano anche le sue ceneri.
I capitoli della mostra formano un percorso unico scandito da cambi di colore, tenui, che mettono l’accento su aspetti particolari della sua arte.
L’infanzia. Vivian Maier, come accennato, aveva una forte empatia con i bambini, per carattere e per il lavoro che faceva. L’infanzia è un tema che ritroviamo in molta della sua opera e i bambini ne sono spesso i protagonisti, individualmente o in gruppo, fissando consapevoli l’obiettivo o ritratti con naturalezza in strada. E altrettanto importante per la Maier è il rapporto tra adulti e bambini, testimoniato dalle innumerevoli immagini che li ritraggono insieme, come se attraverso la fotografia potesse studiare il vincolo che li lega. Anche i bambini di cui si occupava furono suoi modelli, e con loro passeggiava per le strade, scopriva nuovi luoghi, inscenava storie e svelava segreti oltre gli angoli e dietro le finestre delle vite che osservava.
I ritratti. Questa sezione racchiude per la maggior parte fotografie di donne, anziani ed indigenti. Sono la testimonianza dell’immensa curiosità della Maier per la vita quotidiana e le persone che colpivano la sua attenzione. Mentre alcune immagini sono chiaramente frutto di fotografie scattate di nascosto, altre sono il risultato di incontri reali tra fotografa e modelli, ritratti di fronte e da vicino. È nei ritratti che la Maier si avvicina all’”altro”, ed è importante notare la differenza tra i ritratti di persone appartenenti alle classi sociali più basse, con le quali lei stessa si poteva identificare, e i ritratti di persone dalla vita apparentemente agiata. Le immagini che ritraggono vagabondi o umili lavoratori sono istantanee scattate rispettando una certa distanza, mentre quando fotografa gli individui delle classi più alte, quasi li urta di proposito, si intromette scortesemente nel loro spazio vitale, provocando la risposta sgarbata e negativa che desidera e che cattura immediatamente sull’obiettivo con ironia e malizia. In alcuni ritratti poi, la Maier sovrappone i suoi tratti a quelli dei soggetti fotografati, particolarità che fa sì che queste immagini rappresentino sia lei che l’altro, rendendoli quasi autoritratti.
Le forme. Questa sezione definisce perfettamente
l’ossessione della Maier non tanto per l’immagine in sé quanto per l’atto stesso del fotografare. Fotografava persone, scene di strada, oggetti, paesaggi… Si percepisce chiaramente che a volte l’oggetto dell’immagine trascendeva totalmente un qualsiasi discorso fotografico e si focalizzava solo sull’immagine stessa, senza soggetto né trama. Due degli aspetti per cui è più riconoscibile il lavoro della Maier sono l’inquadratura e l’equilibrio delle sue foto; la maggior parte di esse scattate di fronte, con un certo pragmatismo. Questo tratto si apprezza soprattutto nelle immagini di questa sezione, la maggior parte delle quali sono strutture, forme o geometrie, a comporre una specie di minimalismo visivo. Secondo la curatrice quest’evoluzione simboleggia l’esaurimento del linguaggio nel suo invecchiare, quando viene meno la dimensione aneddotica.
Le foto di strada sono fotografie memorabili dell’architettura e della vita urbana di New York e Chicago, soprattutto degli Anni ’50 e ’60 e specialmente dei loro quartieri più popolari. Vivian Maier fotografava costantemente la moltitudine anonima nelle strade, le sue incongruenze, le differenze nelle persone, vestiti, gesti e posture. La strada era il suo teatro. Con le sue istantanee estraeva la bellezza dall’ordinario cercando nel quotidiano quegli spiragli quasi invisibili attraverso i quali accedeva al suo “mondo”. Fotografava semplicemente, quello che vedeva. Non aveva intenzione di catturare alcunché di eccezionale, solo le piccole cose veramente importanti per definire una persona o una situazione: un dettaglio, un gesto, un’inflessione della realtà che si trasforma in storia. Sconosciuti ed anonimi formavano parte di questo mondo. La Maier si allineava nello spazio con quelle persone, cercava il punto giusto e l’angolo perfetto. Quello che misurava con la sua macchina fotografica non era la luce, ma la distanza con l’altro. E “distanza” è la parola chiave nel suo lavoro. È importante sottolinearlo perché costituisce la base del suo modus operandi.
Gli autoritratti segnano un tratto particolare della sua traiettoria fotografica. Ne realizzò infiniti, tanti quanto erano le possibilità di scoprire sé stessa, obiettivo che si poneva con insistenza ed apparente ossessione. Si approfittava infatti in maniera sorprendente dei riflessi e degli elementi che incontrava nella vita di tutti i giorni per realizzare fantastiche composizioni in cui incorporava la sua figura. A volte rifuggiva dal semplice confronto visivo in favore di uno sguardo perso, confuso, interrotto da un riflesso che distorceva la sua immagine. Altre volte vediamo il profilo della sua ombra allungarsi al suolo come una pozza d’acqua ed altre ancora i suoi tratti rimbalzano su qualcosa e sfuggono, via dall’inquadratura. Qualunque fosse la strada, quello che cercava era il suo posto nel mondo.
Il colore rappresenta l’ultima sezione, una modalità sperimentata a partire dal 1965, accompagnando questo passaggio da un cambio tecnico. Comincia infatti ad utilizzare al posto della Rolleiflex una Leica, molto più leggera e con l’obiettivo all’altezza degli occhi, e questa modifica rinforza il contatto visivo con le persone che fotografa. È lo spettro dei colori l’interesse maggiore della Maier, e la sperimentazione cromatica la protagonista indiscutibile. Esplora il linguaggio cromatico con leggerezza, elaborando il suo proprio lessico, sottolineando i dettagli vistosi, evidenziando le dissonanze multicolori e giocando con i contrasti. Il risultato sono immagini singolari, libere e giocose. La Maier si diverte con la realtà attraverso la macchina fotografica, e come una bambina si meraviglia, s’interroga e sperimenta la nuova tecnologia, affascinata ed affascinante.
Nella Cappella di Palazzo Pallavicini poi i Super 8mm riprodotti in questa mostra che ci permettono di seguire lo sguardo di Vivian Maier. Ha iniziato a filmare scene di strada, eventi e luoghi nel 1960. Il suo focus cinematografico è strettamente legato al suo linguaggio fotografico; un’esperienza visiva, un’osservazione sottile e silenziosa del mondo che la circonda. Non c’è narrazione né movimenti di macchina da presa, l’unico movimento che si potrebbe definire cinematografico è quello dell’autobus o della metro su cui sta viaggiando. Vivian Maier filmava tutto ciò che la portava a un’immagine fotografica: osservava, si soffermava intuitivamente su un soggetto e poi lo seguiva. Ha ingrandito il bersaglio per avvicinarsi da lontano, concentrandosi su un atteggiamento o un dettaglio, come le gambe o le mani delle persone in mezzo alla folla. Il film è sia un documentario — un uomo arrestato dalla polizia o la distruzione causata da un tornado — sia un’opera contemplativa — lo strano corteo di pecore diretto ai mattatoi di Chicago.
N.43: Self Portrait NY 1953 Estate of Vivien Meier
N.58 . Gelatine Silver Print 1962 c. Estate of Vivian Meier
N.70: Chicago 1957 c. Estate of Vivian Meier
N.83: NY June 1954 c. Estate of Vivien Meier
N.94: Chicago May 16 1957 c. Estate of >Vivien Meier
N.107: Chicago June 1978 c. Estate of Vivien Meier
a cura di Ilaria Guidantoni