di Stefania Peveraro
direttore di BeBeez
founder di EdiBeez srl
Cari lettori,
l’alto costo del denaro potrebbe non essere l’unico problema alla base delle difficoltà per i fondi di private equity di ricorrere alla leva per incrementare i loro rendimenti. Al momento, certo, questa è la radice del problema e ben lo spieghiamo nell’inchiesta di copertina di questo numero, in cui evidenziamo anche l’attività, sebbene più contenuta in termini di controvalore delle operazioni, continua, soprattutto sui deal di piccole e medie dimensioni, grazie all’utilizzo di una serie di stratagemmi in grado di allineare gli interessi di acquirenti e venditori, in quello che è una sorta di gioco del piccolo chimico con tanto di alambicchi.
Tuttavia, si diceva, all’orizzonte si profila un altro rischio. Ha fatto molto discutere infatti negli Usa una decisione di Citigroup, annunciata lo scorso 14 luglio in occasione della presentazione dei risultati del secondo trimestre dell’anno. Ebbene il colosso statunitense dell’investiment banking ha in sostanza deciso di chiudere i rubinetti del credito ai fondi di buyout che non intendono utilizzare altri prodotti della banca, ma soltanto accedere a linee di credito a breve termine e questo nell’ottica di incrementare la redditività della banca sul fronte dell’attività con i clienti istituzionali (si veda qui Bloomberg). Il Chief Financial Officer di Citi, Mark Mason, ha detto chiaro: “Dove i ritorni sono bassi e i tentativi affinché questi possano crescere si sono dimostrati inutile, allora chiudiamo. E’ quello che abbiamo già fatto con una ampia parte del book”. I fondi di private equity notoriamente utilizzano line di credito come forma di finanziamento a breve termine per chiudere operazioni senza dover chiedere contestualmente agli investitori il capitale necessario. Ma questa linea di business per le banche è a bassa marginalità, sebbene dia loro accesso appunto alle maggiori case di buyout internazionali.
Ora, è possibile che la mossa di Citigroup resti isolata, ma è anche possibile che altre grandi banche Usa che lavorano con i colossi del buyout intraprendano la stessa strada e che poi a ruota la scelta possa essere emulata in Europa. Sia come sia, a maggior ragione i fondi devono lavorare ponendosi obiettivi di rendimento che siano raggiungibili indipendentemente o quasi dall’utilizzo della leva offerta dal settore bancario. E questo significa, da un lato, ridurre in qualche modo le aspettative di rendimento, ma dall’altro anche ampliare le fonti di raccolta ad altri tipi di investitori, per i quali i rendimenti dei private markets risultino molto più interessanti rispetto a quelli offerti da prodotti ai quali sinora avevano accesso. Mi riferisco ancora una volta agli investitori privati. Un tema, questo, al quale abbiamo dedicato la copertina di BeBeez Magazine n. 9 del 24 giugno.
Non a caso in questi giorni sono arrivate altre due notizie che hanno confermato questo trend (si veda altro articolo di BeBeez). La prima è che Allfunds, piattaforma B2B WealthTech a supporto dell’industria dei fondi, ha lanciato Allfunds Private Partners, con l’obiettivo di offrire ai propri clienti un migliore accesso ai private markets e di offrire ai gestori di fondi l’opportunità di rendere disponibili i propri prodotti nella rete di distribuzione di Allfunds. Il programma è aperto a un numero selezionato di partner, con i primi partecipanti al programma che sono: Apollo, Blackstone, Carlyle, Franklin Templeton e Morgan Stanley Investment Management. L’altra notizia è che Goldman Sachs Asset Management ha raccolto oltre 200 milioni di dollari per il suo Private Markets ELTIF 2023, il primo di una serie di ELTIF dedicati ai mercati privati. Più nel dettaglio, il fondo fornisce un’esposizione diretta a investimenti globali, che abbracciano un’ampia gamma di settori e strategie, principalmente nel segmento del private equity, alla quale si aggiunge un’allocation più contenuta nel credito privato a più alto rendimento.
Buona lettura!
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