La strada per il riassetto patrimoniale e industriale dell’ex Ilva di Taranto resta quantomeno complessa fino almeno alla data del riassetto che è fissata al 2024, come ha detto giovedì 19 il Ministro delle Imprese e del Made in Italy, Adolfo Urso.
Il tavolo permanente al Ministero delle Imprese e del Made in Italy (Mimit) è intanto un cantiere aperto dove si alternano gli argomenti più importanti: fra questi, l’iniezione di liquidità per rafforzare il patrimonio, che è di 750 milioni, e l’aumento della produzione, stimato da 4 a 5 milioni di tonnellate. L’aspetto più delicato rimane l’assetto della governance in Acciaierie d’Italia (ex Ilva) che al momento resta così com’è, col privato Mittal al 62% e la società pubblica Invitalia al 38%. La possibilità del cambio esiste, comunque, perché è stata introdotta dal decreto relativo alle misure urgenti per i siti strategici nazionali, n. 2 del 2023 ora in esame al Senato, ma non è di così rapida attuazione come avrebbero voluto sindacati e istituzioni.
Due sono i macroargomenti di interesse, che sono anche stati toccati nei giorni scorsi, il primo riguarda la governance, il secondo la destinazione delle aree afferenti l’ex- Ilva e la produzione dei nuovi tipi di minerali green.
Per quanto concerne il cambio della governance, è li che i sindacati Fiom, Cgil, Uilm e Usb hanno focalizzato la protesta, facendo una prima manifestazione a Roma l’11 gennaio, quando hanno incontrato parlamentari e Commissione Ambiente della Camera, indicendo poi lo sciopero del 19 gennaio a Taranto, portando nello stesso giorno alcune centinaia di lavoratori a Roma, in presidio sotto il Mimit, mentre era in corso il vertice da Urso. Ma anche la Fim Cisl, che invece ritiene necessario cambiare l’assetto societario, è critica sugli esiti del vertice, soprattutto perché ritiene non chiaro lo scenario in cui, da ora in poi, l’ex Ilva si muoverà.
Secondo fonti presenti al tavolo ministeriale, a far dubitare Urso, che per primo aveva parlato di riequilibrio della governance, sarebbe stata l’ipotesi che lo Stato passasse ora al 60% in Acciaierie d’Italia, utilizzando sul versante del capitale il miliardo dato a Invitalia. Inoltre si sarebbe dovuto far carico, nella corrispondente quota proporzionale, anche di tutto il resto, investimenti compresi. E questo avrebbe avuto un costo notevole, per cui anche il Mef avrebbe frenato. Dunque é rimasta la strada del finanziamento soci. Urso ha quindi parlato di un “finanziamento importante che dovrà servire anche a creare quel circolante necessario al rilancio produttivo del sito con una formula che ci consente in ogni momento, eventualmente, di trasformare quelle finanze in azioni”.
Per quanto attiene alle aree, invece, l’amministratore delegato di Acciaierie d’Italia, Lucia Morselli è stata intanto categorica, dopo l’incontro dei giorni scorsi. “A Taranto manterremo un’area a caldo per produrre acciaio e ghisa e rifornire le produzioni a freddo”. Parlando intanto di Genova, dove si produce banda stagnata, incalzata da Stefano Boinazzi della Fiom, ha aggiunto che “l’intenzione è di far crescere la produzione, sviluppare lo stabilimento e raddoppiare appunto il ciclo latta”. L’obiettivo dell’azienda ora è anche quello di difendere le aree, un milione di metri quadrati, che fanno gola a molti. Il sindaco, per esempio, ne reclama 270 mila da destinare ad attività produttive e non; il governatore Toti nell’incontro di giovedì ha di nuovo caldeggiato una loro eventuale redistribuzione.
La novità che intanto è emersa è l’accordo di programma proproi per l’area di Taranto. Urso ne specificherà i contenuti nel prossimo incontro al Mimit tra un mese. Dovrebbe tenere insieme rilancio produttivo, ripresa della fabbrica e nuovi investimenti per l’area di Taranto, con un occhio rivolto a forni elettrici e preridotto (dri, ovvero ferro ridotto diretto) che sono la prospettiva del futuro, come si è capito dalle dichiarazioni del presidente di Acciaierie d’Italia, Franco Bernabè, che ha annunciato nel vertice che in merito alla questione Dri, “a giugno si prenderà la decisione sull’investimento”. L’impianto sarà diviso in due moduli, uno fornirà Dri ad Acciaierie d’Italia e l’altro servirà al mercato interno. “La costruzione dell’impianto comincerà nel secondo semestre”, ha aggiunto. E ha continuato: “partirà presto l’impianto Hydra, un modello che produce acciaio verde in scala ridotta. Effettuerà una piccola produzione per testare le peculiarità connesse alla realizzazione di un impianto vero e proprio”. Invece, per la parte relativa ad Acciaierie d’Italia, sono stati assunti gli impegni di avviare, a novembre prossimo, il rifacimento dell’altoforno 5, spento dal 2015, il più grande d’Europa, di investire sulla centrale elettrica e di produrre 4 milioni di tonnellate di acciaio quest’anno e 5 il prossimo.
Gli investimenti extra-acciaio, tutti da precisare, riguardano invece un rigassificatore galleggiante, l’economia circolare, utilizzando la loppa, sottoprodotto di altoforno, per i cementifici, un accordo con Falck Renewables, la società che insieme a BlueFloat Energy intende costruire due parchi eolici galleggianti al largo di Brindisi e del Salento. “Siamo già a un terzo dei lavori in collaborazione con degli operatori e dal prossimo anno termico contiamo di avere accesso diretto ai produttori di gas. Noi diamo loro l’acciaio e loro daranno a noi energia rinnovabile”, ha annunciato l’ad. C’è poi nei progetti la dissalazione dell’acqua per le finalità produttive dell’acciaio, con un impianto off-shore.
Il sindaco di Taranto, Rinaldo Melucci, del Pd, ha intanto fatto un’apertura di credito al Governo soprattutto per l’accordo di programma. “Noi siamo fiduciosi, continuiamo a collaborare con questo Governo e siamo convinti che l’accordo di programma che chiedevamo dal 2018 ai diversi governi che si sono succeduti possa veramente essere la chiave di volta per il futuro della città”. Ha poi precisato che “il nuovo piano industriale deve essere ancorato alla valutazione del danno sanitario”.
Altri due punti di grande interesse sono stati toccati, l’aspetto finanziario e quello legale.
Per Lucia Morselli, “a inizio agosto scorso il ministro Giorgetti ha riconosciuto che l’azienda era finanziariamente fragile. Grazie al ministro Urso, arriviamo all’uscita dalla condizione di fragilità. Noi abbiamo un ciclo di cassa di sei mesi. Prima di incassare passano sei mesi e noi dobbiamo solo pagare in quella finestra temporale. Adesso possiamo accedere ai mercati finanziari. In un mondo ideale servirebbero due miliardi di circolante in un mondo ideale, ma possiamo farcela”.