
Dopo la ripresa post-Covid, con la fiammata inflazionistica amplificata dalla guerra in Ucraina è tornato a peggiorare lo stato di salute del tessuto imprenditoriale italiano che, tra il 2021 e il 2022, stando a quanto rilevato dall’Osservatorio Rischio Imprese di Cerved, ha visto salire di quasi il 2% le società a rischio default, passando dal 14,4 al 16,1% e raggiungendo le 99.000 unità (+11.000), con 11 miliardi di euro in più di debiti finanziari ora pari a 107 miliardi, pari al 10,7% del totale (si vedano qui il comunicato stampa e qui la ricerca completa). Di fatto, poco meno di un lavoratore su tre risulterebbe attualmente impiegato in imprese ‘fragili’: infatti, agli 831.000 addetti delle imprese a maggior rischio (l`8,5%, +129.000 persone rispetto al 2021), vanno aggiunti gli oltre 2,1 milioni che lavorano in società considerate vulnerabili (21,9%, +228.000).
Pur restando lontani i picchi del 2020, quando le aziende potenzialmente a rischio erano addirittura 134.000 (21,7%), “l’inversione del trend preoccupa gli analisti”, afferma Cerved, tanto più se si considerano anche le società cosiddette `vulnerabili`, passate nel triennio 2019-2022 dal 29,3% (181.000) al 32,6% (201.000). In quest’ultimo scenario, i debiti finanziari toccano quota 195,8 miliardi di euro (+28 miliardi), pari al 19,5% del totale.
Le imprese più fragili si trovano soprattutto al Sud, dove costituiscono addirittura il 60,1% del totale, aggravando il già ampio gap con il Nord del Paese: le province con i peggioramenti più significativi sono infatti Isernia, il Sud della Sardegna, Matera, Foggia e Cagliari (ma anche Roma), mentre quelle con la maggiore quota di aziende a rischio sono Crotone, Terni, la stessa Isernia, Reggio Calabria, Messina, Siracusa e Cosenza.
Il Nord-Est, al contrario, si caratterizza per la più alta quota di imprese sicure e solvibili (135.000, il 62,3%) anche se nel 2022 la rischiosità del tessuto produttivo è tornata a crescere portandosi al 12,6%. Considerando le 184.000 imprese del Nord-Ovest, la quota di società a rischio è oggi del 14,2%, un dato molto più elevato rispetto al 2019 (10,4%) e che se sommato a quello delle imprese vulnerabili porta le imprese fragili al 42,0% contro il 33,3% del periodo pre-Covid.
Andrea Mignanelli, amministratore delegato di Cerved, ha commentato: “Le stime si basano sull’analisi dell`andamento di 618.000 società di capitale nel periodo 2019-2022, valutato attraverso il Cerved Group Score, un indice di rischio che calcola le probabilità di default delle aziende in chiave prospettica. Le tempestive misure di salvaguardia adottate durate la pandemia hanno contribuito a mettere in sicurezza il sistema, e il forte rimbalzo delle performance economiche legate agli effetti del PNRR ha portato a disegnare scenari migliorativi. Tuttavia, le condizioni subentrate nei primi mesi del 2022 – l’aggravarsi dei rincari delle materie prime e il conflitto russo-ucraino, seguiti da inflazione, aumento del costo del debito, phasing out delle misure di sostegno – hanno purtroppo minato la capacità di tenuta di un sistema produttivo già debilitato”.
I macro-comparti che più risentono del fenomeno sono le costruzioni (dal 15,2 al 17,6% di società a rischio) e i servizi (dal 14,9% al 16,7%); a livello più disaggregato, i settori più colpiti rientrano nei servizi non finanziari (in particolare ristorazione e alberghi), nei trasporti (gestione aeroporti) e nell’industria pesante (siderurgia). Anche tra i primi 10 settori con la più alta quota di imprese a rischio, otto appartengono ai servizi: trasporti aerei (41,2%), parrucchieri e istituti di bellezza (37,8%), distribuzione al dettaglio nel ramo moda (36,4%). Quanto poi alle dimensioni, il peggioramento è più consistente tra le micro-imprese (dal 14,9% al 16,7% in area di rischio) e le piccole (dall`8,0% al 9,9%), già maggiormente colpite dalla pandemia e più esposte agli effetti dei rincari.
Sempre secondo quanto diffuso dallo studio Cerved, i comparti più colpiti dal peggioramento della congiuntura sono costruzioni, trasporti, industria pesante, servizi non finanziari e in parte l’agricoltura, anche se a risentirne di più sono soprattutto gestione degli aeroporti (+24%), siderurgia (+12%) e ristorazione (+11%). L’industria, che aveva registrato un significativo miglioramento nel 2021 (11,3% di imprese a rischio) dopo la profonda crisi dovuta alla pandemia (dal 9,9% del 2019 al 19,6% del 2020), è risalita al 12,6% per il rallentamento della domanda globale e l’incidenza dei costi energetici.
Nei servizi, i comparti più colpiti sono la ristorazione (30,1% di imprese a rischio, +11,7 punti percentuali), gli alberghi (21,6%, +10 p.p.) e l’organizzazione di fiere e convegni (25,5%, +8,9 p.p.); nei trasporti, la gestione aeroporti (34,8%; +24,7 p.p.); nell’industria pesante, la siderurgia (26,4%, +12,1 p.p.), i produttori di tubi in acciaio (17,5%, +7,2 p.p.), la lavorazione di metalli (13,7%, +6,9 p.p.), la cantieristica (20,2%, +4,3%) e l’automotive (19,4%, +3,7 p.p.). Risultano in difficoltà anche alcuni settori agricoli, come la produzione di mangimi per animali (11,3%, +3,9 p.p.) e la lavorazione di cereali (11,7%, +3,4 p.p.), penalizzati dal blocco degli approvvigionamenti dovuto al conflitto in Ucraina.
Ma l’ultimo studio di Cerved non è il solo a mettere in evidenza il precario stato di salute del tessuto imprenditoriale italiano. A febbraio scorso, infatti, l’Outlook Abi-Cerved sui nuovi crediti deteriorati delle imprese aveva mostrato che in seguito al livello minimo del 2,1% del 2021 (si veda altro articolo di BeBeez), il tasso di deterioramento del credito avrebbe potuto crescere addirittura del 3,8% quest’anno (si vedano qui il comunicato stampa e qui la ricerca completa). La buona notizia, tuttavia, è che il peggioramento atteso avrebbe dovuto essere solo temporaneo: già nel 2023, infatti, il tasso di deterioramento dovrebbe diminuire al 3,3%, percentuale di poco superiore ai livelli pre-Covid del 2019 (2,9%) ma molto distante dai picchi del 2012 (7,5%).