È stato un anno davvero super il 2015 per il settore del private equity e del venture capital italiano. Sono stati toccati livelli vicini ai record degli anni migliori su tutti i fronti, dalla raccolta agli investimenti e ai disinvestimenti (scarica qui l rapporto Aifi). Lo hanno comunicato ieri Innocenzo Cipolletta e Anna Gervasoni, rispettivamente presidente e direttore generale di Aifi, l’Associazione che rappresenta i fondi di private equity, venture capital e private debt.L’annuncio è stato dato nel corso del convegno annuale di Aifi, che si è svolto come sempre a Milano nella sede di Assolombarda e che ha visto la partecipazione in tavola rotonda anche di Fabrizio Pagani, capo della segreteria tecnica del ministero dell’Economia, Aldo Stanziale del dipartimento vigilanza finanziaria e bancaria di Banca d’Italia, e di Tiziana Togna, responsabile della divisione intermediari di Consob.I dati, elaborati come sempre in collaborazione con PwC-Transaction Services, mostrano infatti un dato eclatante relativo alla raccolta, che ha visto un incremento di ben l’84,5% a 2,487 miliardi dagli 1,348 miliardi del 2014, per un numero di fondi in raccolta solo leggermente più alto rispetto all’anno prima (16 contro 15). I fondi pensione sono stati però i grandi assenti, mentre le compagnie di assicurazione sono presenti ancora troppo poco.
In ogni caso in 30 anni di monitoraggio di dati (quest’anno Aifi compie appunto i 30 dalla fondazione), la raccolta di fondi con focus sull’Italia è stata complessivamente di quasi 40 miliardi di euro, di cui 21,5 miliardi raccolti tra il 2000 e il 2015. Di questi capitali, 8,7 miliardi (cioè il 40%) sono arrivati da investitori esteri, una quota che è andata aumentando in maniera esponenziale negli ultimi due anni. L’anno scorso la quota di raccolta internazionale sul totale del fundraising è stata del 48%, nel 2014 era stata del 68,4%. Il dato precedente più alto è del 2007 (57,4%). I dati, quindi, sono in netto miglioramento, ma appunto non basta, perché il confronto con gli altri principali mercati europei non regge: negli ultimi 29 anni (fermandosi quindi con i dati al 2014 per omogeneità), in Spagna i fondi hanno raccolto 42 miliardi contro i 37 dell’Italia, in Germania 65 miliardi, in Francia 125 miliardi, per non parlare del Regno Unito con 338 miliardi.
Un balzo importante si è registrato anche sul fronte degli investimenti, in aumento nel 2015 in Italia sia per numero di operazioni (342, +10% dal 2014) sia per valore (4,620 miliardi, +31%). Da quest’ultimo punto di vista è stato raggiunto il secondo livello più alto di sempre dopo quello del 2008 a quota 5,458 miliardi. Un target ottenuto anche in questo caso grazie al ritrovato interesse da parte degli investitori esteri: ben il 66% del controvalore investito è di matrice straniera. Le operazioni di buyout rappresentano la quota più importante in termini di ammontare (3,255 miliardi, +49,2%), con numero di deal in crescita (101, +11%). Bene anche le operazioni di early stage (122 deal per 74 milioni dai 106 deal e 43 milioni del 2014); in calo, invece, i deal di capitali per lo sviluppo (81 operazioni per 333 milioni, da 101 deal per 1,179 miliardi).
Nei 30 anni dal 1986 i fondi di private equity in Italia hanno investito circa 59 miliardi distribuiti su 8.200 operazioni. La gran parte dell’attività, però, si è concentrata a partire dal 2000. Da quell’anno, infatti, Aifi ha contato 5.500 investimenti dei fondi in Italia per 52 miliardi di controvalore, di cui ben 28 provenienti da operatori internazionali. Su questo totale, 1,8 miliardi hanno riguardato operazioni di seed e di early stage per un totale di 1.372 start-up finanziate. Anche qui il confronto con l’estero lascia però a desiderare. Tra il 1986 e il 2014 i fondi hanno investito in Italia 54 miliardi, questa volta almeno di pià che in Spagna (41 miliardi), ma sempre nettamente di meno che in Germania (81 miliardi), in Francia (121 milardi) e nel Regno Unito (327 miliardi).
I fondi hanno lavorato parecchio infine anche sul fronte dei disinvestimenti, che nel 2015 sono aumentati del 10,3% in termini di controvalore (calcolato al costo di acquisto delle partecipazioni) a quota 2,903 miliardi, con una maggioranza di operazioni che ha visto come controparte acquirente un altro investitore finanziario. Poco più alto del dato 2014, invece, il numero dei disinvestimenti, che si è attestato a quota 178.