Delle 100 emissioni obbligazionarie di emittenti italiani non quotati con rating pubblico, tra le 467 emissioni quelle monitorate dal 2012 dall’Osservatorio minibond della School of Management del Politecnico di Milano, 73 hanno mantenuto lo stesso rating tra l’emissione e la fine del 2017, 14 hanno migliorato il proprio rating (ottenendo dunque un upgrade) e 13 hanno subito un downgrade. Il tutto tenuto conto del fatto che ben il 66% del totale del 467 emissioni di minibond monitorate non è accompagnata da un rating (307 casi). Ci sono 57 emissioni (il 12%) associate a un rating investment grade (ovvero con un giudizio pari almeno a BBB nella scala utilizzata da Standard & Poor’s, o equivalente) e 43 (9%) con rating speculative grade. Infine ci sono ben 60 emissioni (13%) associate a un rating undisclosed o unsolicited e quindi non pubblico richiesto in genere dall’investitore.
L’analisi dei bilanci consolidati mostra che la redditività appare contenuta ma in leggero miglioramento appena prima del collocamento del minibond. In media si riscontra un buon aumento del fatturato prima dell’emissione e anche dopo l’emissione, sebbene per circa un quarto delle imprese non si registrino variazioni significative.
Detto questo, sono comunque stati molti i casi di ridiscussione dei covenant finanziari a garanzia dei prestiti. Secondo l’Osservatorio, il vincolo dei covenant finanziari è abbastanza frequente: compare infatti in 236 casi sul totale dei 467 monitorati (pari al 51% del campione). Si riscontra una probabilità più alta per le emissioni sotto i 50 milioni e per quelle con scadenza nel lungo termine.
Sul totale delle 149 emissioni avvenute tra il 2012 e il 2016, considerando che il tempo medio che intercorre tra il collocamento dell’obbligazione e un’eventuale ridiscussione dei termini contrattuali è di circa 21 mesi, il 25,5% delle emissioni (38 casi) ha mostrato problematicità documentate da atti ufficiali. I casi riscontrati possono essere classificati in cinque tipologie:
• ridiscussione dei covenant (29 casi): l’emittente convoca gli investitori per richiedere una rinegoziazione dei termini del contratto relativo al mini-bond. Questa categoria include ridiscussioni di target finanziari, maturity, tassi cedolari, ecc. • violazione dei covenant (5 casi); l’azienda non ha rispettato i covenant previsti nel contratto di emissione, non adempiendo agli obblighi prefissati verso gli investitori;
• congelamento del mini-bond (1 caso): l’emittente congela il titolo, bloccando il pagamento delle cedole;
• richiesta di concordato (1 caso): l’azienda richiede il concordato preventivo per evitare il fallimento dell’attività. Ciò implica un temporanea sospensione dei pagamenti cedolari dell’obbligazione;
• fallimento (2 casi): l’azienda emittente è dichiarata fallita prima del rimborso dell’obbligazione.
Un’analisi di dettaglio ha consentito poi di discriminare ulteriormente le motivazioni della modifica dei covenant, a volte prevalentemente di natura tecnica. I 29 casi citati possono essere così disaggregati:
• modifiche formali (16 casi): si tratta di modifiche tecniche, che non hanno rilevanza sulla redditività finanziaria del titolo e non dipendono da un peggioramento della situazione economico-patrimoniale della società (si tratta ad esempio di mutamenti di ragione sociale o di Statuto dell’azienda, oppure operazioni di fusioni e acquisizioni);
• modifiche alle regole di trasferibilità del titolo (1 caso);
• estensione dei termini della garanzia offerta agli investitori (1 caso);
• modifiche alla scadenza del prestito (8 casi): l’impresa ha chiesto di di anticipare (in cinque casi) o di posticipare (in tre casi) il rimborso del prestito, senza che ne fosse prevista inizialmente la facoltà; in tal caso la modifica ha chiaramente effetti finanziari per i quali dovranno scontare un costo opportunità maggiore nel caso di un posticipo (o affrontare il tema del reinvestimento nel caso opposto);
• richieste di modifiche dei parametri finanziari del prestito (3 casi): si tratta dell’evenienza più interessante; tale procedura viene tipicamente adottata dall’azienda quando la probabilità di una futura violazione dei covenant diventa rilevante, sulla base dei risultati preliminari di bilancio (ed infatti la convocazione avviene spesso in dicembre); le proposte di modifica possono riguardare indici contabili meno severi, oppure la ridiscussione della modalità di remunerazione del prestito.
In tema di default, nel 2016 si erano segnalati i casi Waste Italia e di Filca. Per quest’ultima, lo scorso 23 dicembre 2017 il Tribunale di Lecco ha sancito il fallimento, mentre a Waste il Tribunale di Milano ha concesso un’ulteriore dilazione di 60 giorni, rispetto alla precedente data del 12 gennaio 2018, per la presentazione di una proposta definitiva di concordato preventivo o di una domanda di omologa di accordi di ristrutturazione dei debiti (si veda qui il comunicato stampa).
Nell’aprile 2017, invece, Giplast Group spa, società abruzzese attiva nella filiera dell’industria del mobile partecipata dal fondo di private equity Vertis Capital, ha presentato domanda di concordato con continuità aziendale e al momento il Tribunale di Teramo deve ancora pronunciarsi sull’ammissione, dopo la presentazione del piano finale avvenuta lo scorso novembre.
Sempre l’anno scorso anche Sea spa di Trento (emittente di un minibond da 3 milioni sottoscritto nel 2014 dal fondo Euregio Minibond) è stata ammessa al concordato preventivo e le sue attività sono state rilevate da Ecoopera con la formula dell’affitto di ramo d’azienda.
C’è poi stato il default di D’Amante spa, società padovana che gestisce gioiellerie, che il 22 dicembre 2017 ha presentato domanda di concordato in continuità. La società aveva collocato un mini-bond short term da 300 mila euro con scadenza 20 dicembre 2017. Entro giugno 2018 la società dovrà presentare la domanda di concordato definitiva.