Vale 88 miliardi di euro il monte di crediti deteriorati presente nei portafogli delle banche italiane verso aziende italiane non finanziarie che possono rappresentare target di operazioni di acquisizione, ristrutturazione e rilancio da parte di investitori specializzati. E le aziende in questione sono solo 4,820.
Anzi, ancora meno, se si considera che i crediti relativi alle aziende industriali (quindi non di costruzioni né di servizi) rappresentano il 52% del valore complessivo, ossia 45 miliardi.
Lo scrive MF Milano Finanza in edicola dallo scorso sabato 2 aprile, precisando che il conto lo ha fatto Duke&Kay, società di consulenza internazionale specializzata in turnaround aziendali, i cui partner sono manager professionisti delle ristrutturazioni. I numeri, anticipati a MF-Milano Finanza, sono aggiornati a fine 2015 e si basano su un’indagine condotta dalla stessa Duke&Key in collaborazione con Sda Bocconi, Banca d’Italia e Cerved. Lo stesso gruppo di ricerca aveva presentato un mese fa, in occasione di un convegno in Università Bocconi, una selezione di dati relativi ai crediti deteriorati corporate aggiornata a fine settembre (si veda altro articolo di BeBeez).
Dunque in fondo si sta parlando di poche aziende in rapporto alle decine di migliaia di società in crisi che popolano i libri degli istituti di credito. Per i fondi di private equity e di credito specializzati in turnaround aziendali, quindi, identificare le prede per le proprie operazioni non è così difficile.
Maurizio Ria, managing partner di Duke&Kay Italia ha spiegato che “il dato rappresenta poco più di un quarto del valore dei crediti deteriorati complessivi presenti nei libri delle banche italiane, che a fine 2015 era di 341 miliardi, in leggera discesa dai 345 miliardi di fine settembre, ma acquista maggiore significatività se si considera che da quel totale vanno tolti almeno 60 miliardi di euro di crediti deteriorati che rappresentano la soglia fisiologica di deteriorati sotto la quale sembra irrealistico pensare di scendere”.
Il riferimento è al fatto che i dati diffusi dall’European Banking Authority (Eba) a fine settembre (si veda qui il report dell’Eba) indicavano che “in media le banche dei Paesi europei più virtuosi avevano un rapporto tra crediti deteriorati complessivi ed erogato (tutti lordi, ndr) del 3%, con una media europea di poco più del 6%. Ciò significa che, sul totale di circa 2 mila miliardi di prestiti alla clientela del sistema bancario italiano, la soglia fisiologica è appunto di 60 miliardi. Quindi gli 88 miliardi di euro di crediti deteriorati che rappresentano un target per i fondi si confrontano con un totale del portafoglio deteriorato di circa 280 miliardi, di cui rappresentano quasi un terzo del valore lordo”.
Tornando alle 4.820 aziende potenziali target dei fondi di turnaround, Ria ha spiegato che per arrivare a quel numero sono state isolate dal totale “le società con debito inferiore ai 15-18 milioni, importo che in genere per un’azienda in crisi corrisponde anche al fatturato. Al di sotto di quei livelli, infatti, i fondi internazionali non sono interessati ad agire”. Sono state poi eliminate le sofferenze, che rappresentano situazioni aziendali irrecuperabili e cioè società in concordato fallimentare liquidatorio. Per contro, vengono considerate le sofferenze rappresentate da società che si trovano in concordato preventivo in continuità aziendale (articolo 161, comma 6 della Legge fallimentare), in procedura di ristrutturazione del debito (articolo 182-bis della stessa normativa) e in accordo di ristrutturazione del debito (articolo 67 ).
A questo punto c’è “solo” da convincere le banche a cedere i loro crediti ai vari fondi interessati. Compito non facile, perché i fondi e gli spv che comprano crediti dalle banche verso un’azienda debitrice comune fissano un prezzo spesso inferiore a quello registrato nel bilancio delle varie banche, già al netto delle svalutazioni. Ed è su questo punto che consulenti e avvocati stanno lavorando.
“Almeno nel caso delle sofferenze ancora recuperabili tramite un rilancio aziendale, un modo per spingere le banche a cedere i singoli crediti anche a prezzi più bassi di quelli netti a bilancio è rappresentato dalle cartolarizzazioni”, ha detto Ria. “Lo scopo è far acquistare le tranche senior e utilizzare poi la Gacs da una nuova angolatura, cioè in quanto assicurazione dell’eventuale incapacità, a scadenza, del credito cartolarizzato di pagare i flussi attesi, ossia un prezzo tendenzialmente più elevato di quello che lo spv avrebbe pagato in assenza di garanzia pubblica”.
Dal fronte degli altri deteriorati, “non è detto che le banche li debbano per forza cederli”, ha sottolineato il manager. “I fondi, che immetteranno nuova finanza nelle aziende da ristrutturare, potrebbero solo chiedere alle banche di congelare i loro crediti per un periodo e di dotare la nuova finanza di seniority privilegiata rispetto a quella vecchia, oltre che di cambiare il management