Articolo pubblicato su BeBeez Magazine n.8 del 10 giugno 2023
di Giuliano Castagneto
La progressiva costruzione di gruppi medio grandi con successivi innesti di aziende su un nucleo centrale può dare grandi risultati, e in alcuni casi i gruppi costruiti in Italia con il supporto degli investitori di private equity sono arrivati a essere vicini al miliardo di euro di fatturato. Ma come spiegano alcuni dei protagonisti di queste operazioni, ormai quasi la metà del totale mappato ogni anni da BeBeez Private Data, è un processo molto complesso e impegnativo, dove la delusione è sempre in agguato. Soprattutto all’inizio.
Qualche numero
Nel 2022 e nei primi 5 mesi del 2023 poco meno del 50% di tutte le transazioni di private equity italiane sono state operazioni di buy&build, dette anche di add-on. Si è trattato cioè di acquisizioni di aziende italiane da parte di un’altra impresa, italiana o straniera, nel cui capitale è già presente, quasi sempre in posizione di controllo, un fondo di private equity o un altro investitore finanziario, per esempio un veicolo partecipato da un club di investitori privati. Oppure di acquisizioni di aziende estere condotte da aziende italiane, controllate o partecipate da investitori di private equity. Il trend è crescente: nel 2020 e 2021 il peso di quel tipo di operazioni sul totale era stato solo del 38%, mentre nel 2018 e 2019 si viaggiava attorno al 25% (si vedano i dati nel dettaglio nel Report BeBeez Private Equity 5 mesi 2023, disponibile agli abbonati a BeBeez News Premium).
Si tratta di un trend globale, ma che in Italia ha trovato forse più riscontro che in altri paesi, data la grande frammentazione di molti settori industriali e la piccola dimensione media delle nostre aziende rispetto ad altri paesi europei.
Il processo comporta diversi vantaggi. “E’ l’opportunità per ottenere sinergie di costo ed economie di scala, ma anche per entrare in aree geografiche o fasce di prodotto dove non si è presenti, o ancora procurarsi tecnologie cui difficilmente si può accedere da soli” spiega a BeBeez Magazine Filippo Gaggini, managing partner di Progressio sgr, gestore di fondi private equity di consolidata esperienza negli add-on.
Alcuni investitori leader sul mercato italiano ne hanno fatto una filosofia operativa. E’ il caso di Mindful Capital Partners (ex Mandarin), che è solita fare di un’azienda oggetto di una prima acquisizione il polo aggregante di una rosa di successive acquisizioni nello stesso settore, come nel caso di Italcer nel campo della ceramica per la casa, la cui ultima acquisizione, Ceramica Fondovalle , l’ha portata nel settembre 2022 a un fatturato superiore a 360 milioni di euro o Italian Frozen Foods in quello dei surgelati. Spiega Lorenzo Stanca, managing partner di Mindful Capital: “I vantaggi sono da un lato le sinergie commerciali, produttive, e organizzative (tute e tre le quali implicano una maggiore marginalità) e dall’altro il potenziale di multiple expansion: si comprano aziende piccole che costano meno in termini di multiplo per varie ragioni e si vende un oggetto di dimensioni maggiori e che quindi può spuntare un multiplo più elevato”.
Come riporta la tabella pubblicata a pag. ??, i processi di build up, partendo da aziende medio/piccole possono portare a gruppi di diverse centinaia di milioni di euro, e sul piano finanziario stanno dimostrando tutta la loro efficacia, come dimostra la crescita (CAGR) dell’ebitda, in diversi casi più veloce di quella dei ricavi. Uno degli esempi più eclatanti è Gruppo Florence spa, che dopo aver aggregato 26 aziende produttrici di capi di abbigliamento e accessori di lusso per i marchi leader mondiali del fashion, nel 2022 ha superato i 600 milioni di fatturato. Processi in alcuni casi accelerati da un effetto di imitazione. Spesso infatti i buy & build interessano specifici ambiti territoriali, dove spesso si innesca nel tessuto imprenditoriale il desiderio di emulare quanto fatto da colleghi ben conosciuti e che magari hanno tratto significativi vantaggi dalla loro decisione.
Cosa c’è dietro ai numeri
Ma costruire una piattaforma di aggregazione non significa soltanto sommare fatturati ed ebitda. Ai fini del successo di queste operazioni, forse mai come in questo caso, il diavolo si nasconde nei dettagli. Dice infatti a BeBeez Magazine Marco Eccheli, partner specializzato in m&a e private equity italiano di Alix Partners: “Il problema dei processi buy & build è che la necessaria integrazione tra le realtà via via acquisite spesso dura molto di più dei cinque o sei anni del tipico ciclo di investimento di un fondo private equity”. Ciò implica che quando il primo fondo passa la mano a un altro investitore istituzionale o al mercato, il gruppo appena costruito deve ancora esprimere gran parte delle potenzialità e sinergie per le quali il nuovo investitore paga un multiplo più elevato rispetto a quello ottenibile acquistando i singoli pezzi, come detto in precedenza. “Tante operazioni di m&a falliscono perché non si riescono a integrare procedure, management team e strategie”, conferma Gianluca Leotta, fondatore dello studio legale LRLex e pioniere, all’inizio degli anni Duemila, dei primi build up. “Il contro principale di una strategia di aggregazione sta nella complessità e nel rischio di execution. Mettere insieme due tre o quattro aziendine può rivelarsi estremamente complesso e generare problemi gestionali che possono condurre a una caduta dei fatturati e dei margini”, conferma ancora Stanca.
Se quindi la fase critica è l’efficacia del processo di integrazione, quali sono gli elementi a cui gli investitori, soprattutto quelli subentranti, devono stare attenti per non rischiare una distruzione di valore? Continua Leotta: “I build up devono essere basati su regole che consentano al processo aggregativo di funzionare, in senso industriale ma anche giuridico. La governance in vigore prima del deal non è infatti più valida dopo, perché chi acquista ha bisogno di fortificare il proprio controllo. Se allora chi ha ceduto l’azienda resta con una quota di minoranza, perché condivida in pieno le strategie dell’acquirente, spesso richiede delle garanzie che gli consentano di non essere ridotto al rango di quotista passivo”. E aggiunge l’avvocato: “Mi è, per esempio, capitato di assistere un imprenditore che stava trattando per cedere la sua impresa a un polo, il quale voleva sapere quali sarebbero state le aziende oggetto delle successive acquisizioni per capire se queste si sarebbero sposate bene con la sua azienda”.
Quest’ultimo episodio è indicativo di quanto sia importante, ai fini del successo di un add-on, la convergenza e la condivisione delle strategie tra gruppo acquirente e imprenditore acquisito. In termini più sintetici, l’allineamento dei rispettivi interessi. E questa esigenza si è fatta via via più forte con il progressivo affermarsi della prassi del reinvestimento nel capitale dell’acquirente da parte del venditore.
“Il ricorso a questo modello è molto aumentato anche rispetto a solo cinque o sei anni fa”, conferma a BeBeez Magazine Cristina Cengia, legal partner e responsabile del team capital markets dello studio legale PwC TLS, che aggiunge: “Le operazioni di add-on possono avere architetture molto diverse tra loro, a seconda dei settori. Per esempio, nella moda si tende a costruire delle piattaforme comuni (come nel caso di Gruppo Florence, ndr). In tal caso cruciali ed elemento spesso chiave per il successo dell’operazione sono le regole di governance, che vanno adattate alle specificità della situazione, identificando con chiarezza i ruoli di leadership, ma al contempo valorizzando il contributo degli imprenditori che abbiano ceduto le proprie aziende alla piattaforma reinvestendo parte dei propri capitali nel soggetto acquirente, sia nella nuova veste di azionisti di minoranza che nel caso in cui gli stessi mantengano ruoli manageriali”.
Ma a complicare le cose è il fatto che per realizzare il magico congiungimento di interessi non esiste una ricetta unica. Le formule possono infatti variare anche in funzione dei diversi stati di sviluppo di un’azienda, come spiega Raffaele Legnani, managing partner per l’Italia del private equity statunitense HIG Capital, il cui team al suo attivo vanta diversi buy and build di successo come i gruppi dell’informatica DGS e Project Informatica, o Cadica Group, che produce etichette e altri elementi per il packaging. “Se l’azienda aggregata è una realtà matura che fa lo stesso mestiere dell’acquirente e deve essere completamente integrata, allora quest’ultima semplicemente compra il 100%, magari con il venditore che ne prende una piccola quota. Ho avuto esperienza diretta di gruppi che procedono in gran fretta ad applicare i rispettivi sistemi e procedure alle neoacquisite, integrandole velocemente e completamente. Se invece l’azienda target deve mantenere una certa indipendenza perché si sta ancora sviluppando e quindi occorre lasciare spazio al fondatore, a quest’ultimo spesso viene lasciata una significativa minoranza, dal 20 al 30%, in modo che il suo interesse alla crescita dell’azienda resti intatto. Ovviamente in questo caso è necessario che chi vende sia pienamente convinto che aggregarsi a un gruppo più grande può dare una marcia in più alla sua azienda”.
Ma nemmeno un assetto perfetto a livello societario e di governance giuridica può essere garanzia di successo industriale, se questo equilibrio non si replica anche al livello gestionale e operativo. Aggiunge infatti Legnani: “Va evitato in tutti i modi che l’imprenditore rimasto alla guida operativa di un’impresa acquisita al 100% si faccia cogliere dalla tentazione di fare il free rider , ovvero di assumere un atteggiamento passivo andando un po’ a rimorchio del gruppo dando uno scarso contributo alla sua strategia e cultura complessiva”.
Certo, se i problemi di coesistenza si rivelano insormontabili, c’è sempre la possibilità che il venditore coinvolto si accomodi all’uscita. Ma nemmeno in quel caso si può stare del tutto tranquilli. Avverte infatti Leotta: “Va infatti disciplinato non solo il passaggio di consegne, ma anche ciò che potrebbe succedere dopo l’addio, perché il fuoriuscito potrebbe fondare o comprare un’azienda diretta concorrente del suo ex gruppo. Quindi vanno previsti dei patti di non concorrenza” .