L’ottava edizione del Festival diretto da Luigi Franchi e organizzato da Sergio Auricchio alla Terme Tettuccio di Montecatini, in provincia di Lucca, conferma la centralità del cibo non solo nella vita, al di là della sussistenza, ma nella cultura nel senso più profondo ampio del termine. Nella cornice dell’architettura liberty che ricorda la cultura delle acque che depurano e un turismo in parte scomparso che lascia posto ad una nuova cultura del benessere e del fitness, un appuntamento variegato. Se da sempre il cibo e la vita sono stati legati, e non solo per ragioni di meramente naturali, oggi il loro legame è tematizzato, codificato, complice anche la psicologia, l’evoluzione delle scienze nutritive, il business della ristorazione. Al di là di una sempre più diffusa spettacolarizzazione, l’appuntamento di Montecatini mostra il lato culturale mettendo al centro il libro, protagonista in un coro di voci tra scrittori, chef e sommelier. Sullo sfondo “Bere rosa”, un viaggio nel vino fermo e spumante rosé che attraversa tutta l’Italia.
Il pane è forse il cibo per antonomasia, quasi sinonimo di vita, ed è al centro del libro Ti racconto il mulino, pubblicato da da Zines/Afra Editrice, di Rosanna Pasi, ex insegnante di Lettere, a lungo Consigliera comunale, impegnata nei diritti civili. Il libro raccoglie le poesie e i racconti selezionati dalla giuria della prima edizione del concorso letterario dal titolo omonimo, un’iniziativa dell’Associazione Amici del Molino Scodellino di Castel Bolognese, in provincia di Ravenna, borgo creato dal Senato di Bologna nel 1389 per mettere fine alle scorribande nel territorio. L’iniziativa, realizzata in collaborazione con l’Aiams – e Associazione Italiana Mulini Storici – e la rivista Leggeretutti, ha mostrato l’interesse per una realtà che nella storia ha avuto una funziona centrale anche se poi è stata dimenticata. I mulini, come si racconta nel libro, sono stati l’opificio storico e nei borghi del territorio emiliano le due autorità di riferimento erano il parroco e il mugnaio, che davano rispettivamente nutrimento all’anima e al corpo. Fu poi la tassa sul macinato, introdotta da un governo di destra a metà dell’Ottocento per risanare il bilancio pubblico, a cambiare i rapporti tra la popolazione e il mugnaio che fino ad allora era ancora più importante del medico e del maestro. Il successivo governo, di sinistra, non fu in grado di abolire la tassa e quel centro sociale ed economico qual era il mulino venne percepito come esattore delle tasse. Dopo la Seconda Guerra Mondiale poi i mulini furono abbandonati e solo recentemente sono stati oggetto di recupero. Ora l’associazione sta promuovendo la cultura e la formazione oltre che un turismo lento tra natura e cultura che ruota intorno ai mulini storici e al momento la Regione Emilia Romagna è un modello in tal senso, grazie ad un lavoro di concerto tra pubblico e privato. Il tema del lavoro in rete è infatti essenziale anche se i diversi proprietari giocano sempre la partita in un’ottica di competizione. A tal fine a metà luglio l’associazione del Molino Scodellino promuove il festival dei mulini, che “Macinare cultura” con l’Ater, l’Associazione dei Teatri dell’Emilia Romagna.
Sulla linea del cibo altamente simbolico, al di là dell’apparenza, c’è il torrone al quale, se si associa il miele, l’evocazione ci porta lontano, all’ambrosia, cibo degli Dei per i Greci. Affascinante il racconto di Giuseppe Nocca, ex insegnante di Formia all’Istituto alberghiero, agronomo dalla cultura classica, la traduttore dal greco, la nel libro Il divin torrone (Ali Ribelli Edizioni) che recupera le radici antropologiche del torrone ricostruendone il percorso lungo le coste del Mediterraneo fino a delineare la diffusione di questa preparazione dolciaria lungo la Penisola dov’è divenuta un simbolo trasversale della festività religiosa: il Natale, il passaggio alla luce, al nuovo anno, inno alla vita; e i matrimoni, traduzione umana della creazione e della natività. All’origine in Grecia c’era il seme, binomio di vita e morte, che verosimilmente era il sesamo e il miele simbolo di divinità tanto che Zeus racconta sia dalle api. Mangiare questa preparazione indicava l’assunzione in sé del sacro, qualcosa che raccordasse l’uomo all’universo. Da lì ci sono due ipotesi, la prima delle quali ci rinvia alla kopta del II secolo a.C. da cui il termine cupeta dialettale che indica una preparazione con farina, miele e frutta secca e che fa presagire il termine cupidigia, legato al desiderio e a una prima laicizzazione. Questo tipo di dolce diventa però popolare. L’altra ipotesi ci porta di nuovo al sesamo e al miele ma sulla via degli Arabi attraverso la Spagna dove si era cominciato a usare lo zucchero perché si conservava più a lungo del miele; solo che, essendo allora marrone, grezzo, nel Medioevo lo si sbianca con l’albume d’uovo. Da qui la tradizione del bianco mangiare e il Nougat che si ritrova in Francia, in Provenza, lungo il cammino tracciato prima dai Romani e poi dagli Arabi. Dalla Spagna in Italia il torrone o meglio il suo predecessore arriverà in Sardegna dove il miele sarà abbandonato per essere sostituito interamente dallo zucchero e anche in questo caso sarà un cibo popolare che segna riti di passaggio come le feste di paese e le nozze. I torroni noti che oggi conosciamo sono invece produzioni standardizzate che hanno perso in parte il legame con la storia pur mantenendo un’identità territoriale, basti pensare a quello di Cremona o il torrone abruzzese Nurzia, morbido. Una curiosità, il solo a fregiarsi dell’IGP è quello di Bagnara Calabria, in provincia di Reggio Calabria, la città di Mia Martini.
Altro tema affascinante quello dei fiori edibili affrontato da Sandra Ianni, sociologa, sommelier e storica della gastronomia, in Fame di fiori. Nutrirsi di bellezza (Youcanprint) nel quale invita a riflettere sull’errore della presunta equazione naturale alias sano, ma evitando le mode del fiore nel piatto. Il linguaggio e la simbologia dei fiori ci invitano a riflettere, al contrario, sulla complessità. Così ad esempio si possono mangiare i fiori d’acacia ma guai ad avvicinarsi a semi e foglie che sono tossici; allo stesso modo se il fiore di sambuco ha grandi proprietà di – con il legno della pianta è realizzato il Flauto Magico di Mozart e la bacchetta di Harry Potter, nella mitologia celtica è rappresentato da una fanciulla con le trecce bionde e gli occhi azzurri, bella come una fata che può trasformarsi in strega. Se il cibo è intimamente legato al nostro essere, qualsiasi espressione può essere tradotta nella metafora alimentare e un libro può essere raccontato attraverso i piatti.
È la sfida di Claudia Fraschini in Beata o dannata? (Trenta Editore) di autrice di ricette ispirate alla Divina commedia. Per i lussuriosi dell’inferno il contrappasso è la panzanella (pane e acqua con il pomodoro, ricordo della passione); per gli iracondi la seppia e ‘nduja accesa dal piccante del peperoncino; o la lingua al bagnetto rosso per gli adulatori. Nel Paradiso ci sono solo dolci tutti a base di uovo, simbolo di vita il cui albume montato a neve evoca la leggerezza; la farina con il suo candore è il pane; lo zucchero la dolcezza soave; l’alcool metafora dello spirito.
a cura di Mila Fiorentini