La Galleria MA-EC di Milano, da sempre molto attenta ai fenomeni di contaminazione culturale tra Occidente e Oriente, lancia un’iniziativa digitale fino al 12 giugno con la mostra Il filo di Turandot, per superare il confinamento, con lo sguardo rivolto soprattutto all’arte cinese dei giovani artisti esponendo Maomin Chen, Huiming Hu, Shuai Peng.
Il Filo di Turandot è la mostra – per ora virtuale, visitabile online andando sul sito www.ma-ec.it – che MA-EC Gallery propone con opere di tre artisti cinesi, configurandosi come un percorso di lettura, uno spiraglio per esplorare un mondo diverso e manifesta il desiderio di avvicinarsi e di comprendersi reciprocamente.
“L’arte è sempre stata il riflesso del proprio tempo, e spesso lo anticipa”, ci ha raccontato la Gallerista Peishuo Yang. “Quando l’Occidente usufruiva dei benefici del boom economico, la Cina faceva ancora fatica a uscire dalla povertà e dalla chiusura. Man mano con il miglioramento delle condizioni socio-economiche, la situazione iniziava a mutare. Mentre l’America consolidava la potenza delle corporation e il Giappone impressionava il mondo con acquisti da record nell’arte, la Cina affrontava giorno per giorno radicali cambiamenti portati dalla riforma del 1978. Lo sviluppo, l’apertura e il progresso sono elementi fondamentali che segnano quegli anni.
Negli anni 90 la Cina fa il primo esordio nell’ambiente artistico internazionale”.
In occasione della 45esima Biennale di Venezia, nel 1993) arrivano in Italia una decina di artisti cinesi e questo rappresenta un evento di assoluta importanza storica, voluto da Achille Bonito Oliva e Italo Furlan: da un lato l’ingresso degli artisti cinesi nell’arte contemporanea occidentale; dall’altro le novità che questi artisti riportavano in Cina aprivano un nuovo orizzonte alle generazioni successive.
Negli ultimi anni, ci ha raccontato Peishuo, si è registrato un flusso costante di giovani artisti cinesi, nati proprio nel periodo di novità in ogni campo e di crescente benessere materiale, venuti poi in Italia per perfezionare la ricerca, dopo aver già ottenuto una formazione nella propria cultura di origine.
“L’immergersi nella cultura italiana rende la loro arte inevitabilmente diversa da quella dei loro colleghi operanti esclusivamente in Cina. Nonostante ognuno segua un proprio percorso individuale, nelle loro opere si intravede un filo di lettura invisibile. Le affinità sono generate dall’ambiente comune di prima formazione e dalle osservazioni delle caratteristiche più allettanti della cultura e società italiana nella visione cinese, poi elaborate nella fase della seconda formazione.”
Nelle opere dei tre artisti in mostra si scorge un continuo dialogo con la cultura di provenienza e una attenzione sensibile verso i grandi interrogativi della nostra epoca. Nella loro ricerca si percepisce la confluenza delle due realtà lontane, quella di origine e quella di elezione.
Sono artisti cinesi della nuova generazione, attivi nell’ambito internazionale dell’arte contemporanea che indagano sul significato di libertà, solitudine e sulle contraddizioni tra le verità generate da punti di vista diversi, a volte opposti. Le loro creazioni sono impregnate di questa dualità culturale e nascono da una profonda riflessione su un ideale flusso continuo tra passato e futuro, tra Oriente e Occidente.
Peishuo ci fa notare che sono passati esattamente trent’anni dalla caduta del muro di Berlino e in quel 1989 al Centre Pompidou si inaugurò la mostra Les Magiciens de la Terre, la prima grande esposizione internazionale che univa agli artisti occidentali, altri provenienti da mondi a quei tempi considerati lontani, se non esotici. La globalizzazione stava dunque arrivando a celeri passi. Il Muro di Berlino è d’altronde la metafora di tutti i muri, simbolo di barriera e del desiderio di infrangerla per conquistare la libertà. Oggi tra l’altro di nuovo minacciata, tanto che si tornano a costruire muri.
The Wall, il muro, è anche il tema portante dell’installazione di Hu Huiming, la cui ispirazione si nutre una volta nel rapporto con la cultura di provenienza. Dentro ciascuna mattonella di cemento che forma questo sbarramento è nascosto un libro pressato, a cui non si potrà più accedere né dunque leggerlo. L’episodio si riferisce a un preciso accadimento storico: quando l’imperatore Qin Shihuang bruciò i libri, la nona generazione di Confucio, discendente da Kongzhen, nascose molti testi classici della tradizione all’interno di un muro. Così i libri furono salvati, salvati ma illeggibili. Più tardi, al tempo dell’imperatore Hanjing, Liu YuYu, principe del Lu Gong, espanse il suo palazzo e demolì la casa originale di Confucio. Del muro dunque non resta niente, e questo è un tentativo estremo di riportarlo in vita, come ha fatto notare il critico d’arte Luca Beatrice.
Nato nel 1990, quest’artista è nata a Jingdezhen, in Cina e attualmente vive e lavora in Toscana. Il principio fondamentale nelle sue opere è la dicotomia tra realtà e inganno – nulla dà l’impressione di essere reale più della varietà di oggetti di uso quotidiano, come libri, specchi o quadri, ma le cose non sono come appaiono.
Diverse le presenze internazionali e progetti artistici e residenze in varie città europee. Nel 2018 e nel 2019 partecipa a WOPART, fiera internazionale di opere su carta che si svolge a Lugano. A maggio 2019 è stata selezionata dalla Galleria MA-EC per la mostra Pei’s world. A brief history of a Chinese Gallery in Italy, a cura di Luca Beatrice, svoltasi all’Arsenale di Venezia durante la Biennale.
Altro artista in mostra Maomin Chen, classe 1990, è nato a Hunan, in Cina, presente con la serie degli alberi che simboleggiano l’uomo contemporaneo, ognuno è distante dall’altro nonostante si trovi nello stesso ambiente, raccontando così descrive la solitudine dell’individuo nella società.
Nel 2012 si è laureato in Scultura/Arte pubblica presso la China Academy of Art. Attualmente vive e lavora a Milano, dove si sta specializzando presso l’Accademia di Belle Arti di Brera. Ha ottenuto due importanti riconoscimenti, “Chong Li” (Ispirarsi alla bellezza) Prize of China Academy of Art e Special winner of Lin Feng Mian Prize of China Academy of Art.
Il terzo artista è Shuai Peng (Cina, Xiangtan, 1995), (qui sopra Shuai Peng, Passage) multidisciplinare. Nel 2004 si trasferisce a Reggio Emilia e si dedica al disegno e alla pittura presso l’Atelier di Caterina Coluccio. Dal 2016 vive e lavora a Milano dove si è diplomato in pittura all’Accademia di Belle Arti di Brera. Ha al suo attivo numerose partecipazioni a mostre collettive e alcune personali. Si è classificato al primo posto al GAEM Prize, CNA Project, Ravenna e al Paolina Brugnatelli Visual Arts Prize.
Passage, una delle opere in mostra, potrebbe rappresentare un muro o una porta, come una sorta di passaggio immaginario oppure potrebbe essere un elemento che non significa assolutamente nulla. Il linguaggio è una stupefacente creazione umana, e per comprendere un linguaggio è importante comprendere anche la mentalità e la cultura corrispondente. L’idea della contaminazione e della fluidità tra gli esseri umani è alla base dell’evoluzione della civiltà e della ricchezza di quanto viene prodotto. Chi rifiuta di apprendere la cultura di un’altra provenienza o di capire quel tipo di mentalità si trova davanti a una situazione di difficoltà di comunicazione con altri esseri umani, e perciò viene a crearsi “il malinteso”. L’opera manifesto sta a significare che spetta a noi decidere di aprire questa porta di connessione con gli altri o lasciarla chiusa per sempre, come un muro eterno.
a cura di Ilaria Guidantoni