di Paolo Gesa,
amministratore delegato di Officine CST
Ho letto con interesse il commento di Fausto Galmarini, presidente di Assifact, dal titolo “Factoring con le armi spuntate, se si applicano le regole prudenziali del credito bancario”, pubblicato da BeBeez lo scorso 2 novembre, e condivido il principio che talvolta (o meglio, spesso) le regole di vigilanza prudenziale producono effetti distorsivi, dal momento che potrebbero penalizzare, in termini di assorbimento di capitale, asset dal profilo rischio/rendimento migliore di altri. Il dibattito che vede coinvolti l’industria e gli specialisti del settore può fornire indubbiamente un contributo a migliorare le regole, ma non si dovrebbe prescindere dai principi.
Facciamo un piccolo passo indietro. Nel 2015 gli NPL presenti nelle banche italiane hanno toccato il picco di 341 miliardi di euro, mentre oggi sono poco medi di 80 miliardi, e i vari studi presenti sul mercato, benché tengano in considerazione che affronteremo un periodo di crisi, non prevedono nuove ondate di deteriorati come nel periodo 2009-2014 dove le banche “sfornavano” più di 50 miliardi di nuovi deteriorati ogni anno.
Cosa è cambiato oggi rispetto ad allora?
Negli ultimi anni si è sviluppata una vera e propria “industria” della gestione del credito e sono cresciuti investitori finanziari specializzati che rendono il mercato più liquido ed efficiente, consentendo alle banche di smaltire più velocemente i nuovi flussi di NPL. Gli interventi in molti casi arrivano prima dell’insolvenza conclamata, già allo stato di UTP o di stage 2, prevenendo il decadimento del credito a stati peggiori, prevedendo per le imprese (e talvolta i privati) piani di rientro del debito costruiti su misura o, in taluni casi l’impiego di nuova finanza per supportare i business plan più meritevoli.
Ma, elemento a mio avviso ancor più disruptive, è stata l’introduzione di regole europee armonizzate e basate su dati oggettivi per la classificazione a default del credito. Rispetto a un passato, che pare ormai molto lontano, la discrezione delle banche nel classificare a deteriorato un credito è molto minore. L’asset quality review ha cambiato i paradigmi del credito, spostando la valutazione sulla capacità del debitore di generare flussi di cassa piuttosto che sulle sue garanzie patrimoniali; inoltre l’introduzione della formalizzazione delle procedure di forbearance (tolleranza) e della nuova definizione di default hanno reso omogenei e il più possibile oggettivi i criteri di classificazione dei crediti per le banche.
Il venir meno di tale discrezionalità protegge e rende più solido il sistema, evitando che nei bilanci delle banche si accumulino crediti non correttamente classificati e accantonati, minimizzando il rischio che interventi di vigilanza facciano emergere improvvisamente perdite su crediti, e conseguenti ammanchi di capitale – alle banche, col conseguente rischio di creare pericolose instabilità al sistema finanziario, costose per gli azionisti delle banche o per lo Stato – come abbiamo sperimentato nelle crisi bancarie dell’ultimo decennio.
Quindi, a mio avviso, pur tenendo in considerazione gli aspetti peculiari di ciascuna forma di credito e le proposte che l’industria è in grado di produrre, è fondamentale mantenere criteri che limitino al minimo la discrezionalità di ogni singolo intermediario.
Per quanto riguarda il debitore Pubblica Amministrazione (PA), le procedure di pagamento (e conseguentemente i tempi) sono notevolmente migliorate dall’introduzione della fatturazione elettronica. I paragrafi 25 e 26 delle LG EBA consentono già l’applicazione di un termine di 180 giorni invece che di 90 giorni, a cui si sommano i tempi di pagamento previsti per legge (30 o 60 giorni), spostando parecchio in avanti il momento di decorrenza del default, evitando la classificazione a deterioratodella maggior parte delle PA.
Inoltre, sono necessari dei distinguo, in termini di rischio di credito, per le varie tipologie di enti pubblici. Un conto sono i Ministeri e gli altri apparati dello stato centrale, il cui profilo di rischio di credito è assimilabile a quello della Repubblica Italiana quando emette bond sul mercato. Un altro è quello del Sistema Sanitario Nazionale, ovvero la voce principale dei pagamenti commerciali dello Stato, e dipendente da flussi centrali e regionali, che oggi paga tendenzialmente puntualmente, con poche eccezioni concentrate in specifiche aree territoriali.
Un altro ancora quello degli enti locali e loro ramificazioni (tra cui Consorzi e società partecipate); in questo caso la situazione è estremamente eterogenea e l’analisi del rischio deve essere certamente più approfondita e puntuale. In questo clustr troviamo sia enti finanziariamente efficienti e solidi, sia organismi caratterizzati da carenze organizzative e cronici deficit di cassa. Ricordo, inoltre, che i comuni e gli enti locali sono sottoponibili a piani di riequilibrio o al dissesto finanziario, veri e propri default “pilotati”, che possono prevedere il blocco delle azioni esecutive, la dilazione dei pagamenti e la falcidia del diritto di credito. Infine, nell’ambito delle società partecipate, ormai è assodata dalla riforma Madia e da numerose pronunce dei tribunali, l’autonomia patrimoniale (e quindi il divieto degli enti statali di operare un soccorso finanziario) e la possibilità di avvalersi di procedure concorsuali tipiche delle aziende private.
Secondo le statistiche Assifact, lo scorso giugno 2,4 miliardi di euro di crediti verso la PA (ovvero il 27,9% del totale delle esposizioni) detenuti dalle società di factor sono scaduti da oltre un anno. Il dato è sostanzialmente stabile in valore assoluto dal 2018, mentre ne è un po’ aumentata l’incidenza (era il 23% nel 2018). Ne consegue che anche molte PA se non pagano mai, possono rappresentare un default.