di Francesca Vercesi
Piazza Affari sta diventando un approdo e un trampolino per le piccole e medie imprese, a scapito delle grandi. Mentre a guidare la corsa al delisting è il private equity. Lo dimostra una ricerca di Intermonte e del Politecnico di Milano intitolata “Sliding Doors: il flusso di listing e delisting sul mercato azionario di Borsa Italiana (2002- 2021)”, che definisce meglio i contorni di un fenomeno iniziato vent’anni fa.
Cosa è emerso? Che negli ultimi 20 anni le ipo sono state 448 mentre i delisting sono stati 336 (di cui 107 negli ultimi cinque anni). Quasi l’80% delle uscite ha interessato aziende quotate sul listino principale (Euronext Milan, già Mta), che ne ha guadagnate quindi ‘solo’ 185. Solo nell’ultimo anno, poi, complici l’elevata liquidità in mano ai private equity e valutazioni borsistiche troppo influenzate da fenomeni esogeni, hanno lasciato il listino, fra le altre, CreVal, Capital For Progress Single Investment(una Spac trasformata in società di investimento), Ima, Massimo Zanetti, Astm, Techedge, Cft ed Elettra Investimenti. Ma è lunga la lista delle aziende che hanno lasciato o si si apprestano a lasciare le contrattazioni. Tra le prime ci sono Reno de Medici, Sicit e Carraro, tra le seconde La Doria e Falck Renewables.
Il fenomeno dello ‘spopolamento’ dei listini borsistici è globale, sottolineano Intermonte e Politecnico, “per via della sempre maggiore concorrenza del private equity e degli investitori istituzionali, che hanno a disposizione potenza di fuoco in abbondanza e hanno beneficiato dei bassi tassi di interesse negli ultimi anni”.
Per ora, comunque, in Italia il saldo netto tra listing e delisting è positivo e, a fine 2021, è stata superata la soglia record di 400 società quotate (407 per la precisione) a Piazza Affari, ma si è vista anche una mutazione del profilo del mercato azionario, molto più orientato verso le small cap. Infatti il mercato non regolamentato per le Pmi (Euronext Growth Milan, o Egm, già Aim Italia, che conta oggi ben 174 società quotate) ha attratto 263 imprese contro non più di 68 cancellazioni. “Si è quindi osservato un trend di costante arretramento del numero di società sul listino principale, a fronte di una forte crescita del segmento non regolamentato”, riassume il report.
Sta di fatto che i delisting hanno però causato una importante perdita di capitalizzazione per Piazza Affari, superiore negli ultimi 5 anni a 55 miliardi di euro, che si è mangiata quasi un quarto della crescita dei corsi azionari dello stesso periodo. In particolare, fra il 2017 e il 2021, sono ben 105 le società che hanno detto addio a Piazza Affari. Al 31 dicembre 2021 in Italia il rapporto fra capitalizzazione di mercato e Pil era del 43,8% contro il 218,2% degli Stati Uniti e ill 102% dello UK, il 107,6% della Francia e il 59,4% della Germania.
Ma perché le imprese decidono di abbandonare i listini? Per Intermonte e Politecnico non è questione di performance. Limitando il tempo di osservazione agli ultimi dieci anni, la ricerca evidenzia che le 300 imprese italiane entrate in Borsa (63 su listino principale e 237 su Egm) hanno aumentato il volume d’affari sia prima sia dopo la quotazione mentre la crescita media annua dei ricavi sul periodo è stata del 12% per il listino principale e del 23,3% per Egm. Per quanto riguarda la performance di mercato, nell’arco dei dieci anni si osserva un rendimento assoluto mediamente positivo sia per il listino principale (si arriva a +31,7% dopo 3 anni) sia per Egm (+20,0%). Al netto del rendimento dell’indice di mercato, si evidenzia che le matricole di Euronext MIlan sui 3 anni successivi rendono in media il 22,6% in più, mentre quelle del listino non regolamentato conseguono un rendimento differenziale pari a +6,2%.
“I risultati dell’analisi forniscono un’evidenza rassicurante per imprese e mercato: per le aziende sane la quotazione in Borsa risulta essere un acceleratore della crescita e remunera gli investitori in maniera soddisfacente”, commenta Guglielmo Manetti, amministratore delegato di Intermonte. “Il messaggio che ne traiamo è che la quotazione in Borsa rappresenta un vantaggio competitivo di lungo termine. In quest’ottica, utilizzare l’Ipo come “porta scorrevole” può essere sì una forte tentazione laddove ci siano condizioni attraenti, ma vanifica numerose opzioni future di sviluppo e valorizzazione della società”.
Resta però il fatto che tante quotate hanno scelto di farlo, come mai? Quattro sono le ragioni evidenziate dalla ricerca, che divide in altrettanti gruppi le 186 cancellazioni avvenute negli ultimi dieci anni (120 dal listino principale e 66 da Egm). Il primo è quello delle “sconfitte” (29% del gruppo) cioè imprese delistate inevitabilmente perché o sono fallite o hanno subito un dissesto finanziario o sono state escluse dal mercato per mancanza dei requisiti.
Poi ci sono le “prede” (30%), cioè aziende acquisite da soggetti esterni con il conseguente ritiro delle azioni dal mercato. Parliamo soprattutto di operatori stranieri (in 23 casi) o finanziari (14 casi, soprattutto private equity). In 9 casi si tratta di un gruppo industriale, bancario o assicurativo già quotato su Borsa Italiana. In altri 4 casi l’acquirente è un gruppo italiano non quotato, mentre in ben 23 casi si tratta di un gruppo industriale straniero. Sono 14 le acquisizioni da parte di investitori finanziari, quasi sempre fondi di private equity, per lo più stranieri. Le “prede” hanno registrato un flusso record nel 2021, con ben 11 delisting. Sono imprese caratterizzate da buoni ratio di bilancio e – soprattutto nei 12 mesi precedenti – hanno generato rendimenti positivi. Queste aziende hanno quindi attratto l’attenzione di primari investitori e gruppi industriali: la quotazione in Borsa è quindi anche una vetrina in grado di attirare possibili compratori.
Il terzo gruppo (poco rilevante, il 14%) è quello delle società riassorbite in altri gruppi quotati per una logica di riorganizzazione societaria interna, quindi rimaste comunque nel perimetro della Borsa.
Il quarto gruppo, quello più interessante ai fini della ricerca, che riguarda il 26% del campione, è quello delle “pentite”. Sono aziende in gran parte presenti a Piazza Affari da 10 o più anni, che hanno ritenuto opportuno abbandonare il listino per decisione interna (o per volontà dei soggetti controllanti o sulla base di considerazioni strategiche discrezionali). Il flusso delle “pentite” tende a intensificarsi negli ultimi anni: 8 casi nel 2021, 3 nel 2020, 7 nel 2019 e 7 nel 2018. Dove la situazione lo permetteva, per dimensione del flottante e numero di investitori esterni, ciò è avvenuto con una richiesta unilaterale o con fusione in altra impresa non quotata, sempre riconducibile al nucleo di controllo. Negli altri casi ciò è avvenuto passando attraverso un’Opa volontaria o successiva.
Tuttavia emerge un fattore comune alla base degli abbandoni di Piazza Affari, al di là delle varie motivazioni, ed è l’opportunismo, Piazza Affari essendo vista appunto come una porta scorrevole (la sliding door del titolo della ricerca) dalla quale entrare e uscire per convenienza.
D’altra parte quanto accade a Piazza Affari si innesta in un fenomeno che interessa tutta l’Europa e non solo. Secondo la piattaforma Refinitiv, negli Usa nel 2020, i multipli di valutazione medi delle operazioni di buyout hanno toccato il valore record di 13,2 volte l’Ebitda, mentre nel 2008 erano pari a 8 volte. In Europa il 2021 è stato un anno da primato per gli investimenti in buyout, raddoppiati rispetto al 2020; il multiplo mediano di acquisizione è stato pari a 12,8 volte l’Ebitda. Secondo Preqin, a gennaio 2021 la liquidità a disposizione dei fondi di private equity ha raggiunto il record di 1.900 miliardi di dollari, una cifra impressionante, più del doppio dell’intera capitalizzazione di Piazza Affari, che ha coinciso con il significativo calo delle quotazioni dei gruppi europei legato al Covid, fenomeno al quale l’Italia non poteva restare estranea, come evidenziato lo scorso anno da BeBeez .
Ricordiamo che tra le ultime operazioni che porteranno a opa ci sono il fondo Gilde Private Equity che sta per lanciare l’opa totalitaria finalizzata al delisting di TAS (Tecnologia Avanzata dei Sistemi), il gruppo fintech milanese quotato a Piazza Affari e specializzato in software per i pagamenti elettronici e i mercati finanziar (si veda altro articolo di BeBeez). E ancora: il doppio deal di fine anno di Danilo Iervolino che il 30 dicembre scorso ha acquisito il controllo di BFC Media (sulla quale lancerà l’opa obbligatoria) e della Salernitana Calcio (si veda altro articolo di BeBeez).